Discorsi d’odio, il T chiude lo spazio commenti

“Chiudiamo i commenti, ecco perché”.  Sul proprio profilo Facebook, sabato scorso, il giornale “il T Quotidiano” ha scelto di non far vetrina – e di non restarne ostaggio – ad una valanga di commenti inaccettabili, pieni di insulti, carichi d’odio. Un fenomeno che è tipico dei social soprattutto nella parte riservata ai commenti dove gli odiatori si nascondono spesso dietro a nomi fasulli e si supera non solo il limite della decenza, ma anche quello del codice penale. Quasi sempre, in questi casi, si reagisce con rassegnazione: “i social sono fatti così, prendere o lasciare”. Ci si indigna, ma si va avanti.

L’argomento in questione – non poteva essere altrimenti – ancora una volta era il tema degli orsi. Nello specifico, il rinvio a giudizio del presidente Fugatti per la morte di M90, animale problematico abbattuto nel febbraio 2024 in val di Sole, la valle dove viveva Andrea Papi, il giovane di Caldes ucciso proprio da un orso. Secondo il Gip, che ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla pubblica accusa, Fugatti deve rispondere del reato di “uccisione di animale con crudeltà o senza necessità” (regolato dall’articolo 544 bis del codice penale).

Dai tempi di Daniza – l’orsa uccisa in val Rendena nel settembre 2014 – i social funzionano da cassa di risonanza: amplificano toni e contrapposizioni, trasformano il confronto in scontro. Emerge, cioè, una crescente attitudine a quella che in inglese viene definita “Hate speech”, ovvero l’attitudine a generare, diffondere, incitare e promuovere sentimenti d’odio.

La scelta di chiudere lo spazio dei commenti, scrive il giornale diretto da Simone Casalini, “nasce dall’esigenza di mantenere un confronto civile e rispettoso, evitando la diffusione di contenuti offensivi o potenzialmente diffamatori”.

Chi ha avuto occasione di leggere i commenti sulle questioni riguardanti i grandi carnivori – non solo in questa occasione – ha ben presente a quale livello di odio si può arrivare: frasi non solo inaccettabili in qualsiasi confronto, ma che chi le scrive non avrebbe mai il coraggio di dirle guardando l’interlocutore negli occhi.

Si può dunque dire che i social favoriscono uno sdoppiamento di personalità? Su questo gli esperti sembrano ormai convinti. La possibilità di intervenire dall’ambito privato (non solo in maniera anonima) in un contesto di pubblico, spiega Antonio Teti (“Cyber Influence”, Il Sole 24 Ore, 2023), “consente al soggetto di vivere una condizione di superiorità psichica costante all’interno del proprio ecosistema digitale, esigenza derivante dal fabbisogno di superare frustrazioni personali, difficoltà, insoddisfazioni, stress e disagi vissuti nella vita reale”. Insomma, i “leoni della tastiera”, quando si approcciano ai social vivono la sensazione di potersi esprimere liberamente, azzerando tutti i vincoli delle relazioni personali nel mondo reale. “L’individuo può quindi esprimere ogni pulsione in termini di accessibilità, controllo, eccitazione, esprimendo i propri desideri più intimi e riservati senza temere alcun rifiuto o giudizio esterno”.

Leggendo l’infinità di post carichi di odio che dominano i social, ci si chiede come ciò sia possibile senza che i responsabili dei network debbano intervenire. Qui la risposta è doppia. In primo luogo, non c’è alcuna responsabilità addebitabile ai dirigenti di Facebook per quanto viene scritto o condiviso. È il cosiddetto criterio chiamato – incredibile a dirsi – del “buon samaritano”. Una norma che nasce negli Stati Uniti a metà degli anni Novanta e che stabilisce che le piattaforme online non siano responsabili dei contenuti pubblicati dagli utenti. In altre parole, a differenza di quanto succede nei giornali, gli “editori” dei social non rispondono legalmente per ciò che circola sui loro spazi (a meno che non intervengano attivamente nella sua creazione o modifica). L’idea di fondo, come spiega Steven Brill (“La scomparsa della verità”, Neri Pozza editore), era quella di incoraggiare la libertà di espressione e la crescita di internet senza sommergere le aziende di cause legali.

Ma con il tempo questa tutela si è trasformata in uno scudo: i social sono diventati piazze globali dove l’odio, la disinformazione e le polemiche trovano spazio e amplificazione, mentre i gestori possono tranquillamente chiamarsi fuori. Ciò che doveva favorire la libertà, oggi garantisce invece l’impunità. In secondo luogo, Facebook e gli altri social traggono un enorme vantaggio proprio dal favorire i commenti d’odio. L’algoritmo è stato programmato per ottenere questo risultato e massimizzare i profitti.

L’esperienza ci dice che i post che generano rabbia provocano più commenti, condivisioni e reazioni, azioni che aumentano il tempo passato dagli utenti sulla piattaforma e quindi gli spazi pubblicitari vendibili.  Tutto ciò comporta che i contenuti tossici, polarizzanti o disinformativi tendono ad essere amplificati. A Facebook, infatti, non interessano i post “moderati”, che portano al ragionamento, che favoriscono il confronto (e magari il dialogo). Al contrario, il fine ultimo di Zuckerberg (e soci) è quello di favorire dinamiche che alimentano l’odio e l’estremismo. Perché ogni reazione “forte” diventa un segnale utile all’algoritmo per tenere l’utente “agganciato”. Ovvero, per guadagnare di più.

vitaTrentina

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