I “barboni” ci interrogano con la loro ferita

Arturo, che ricordiamo in questa rubrica

lo spunto
In queste settimane di gran freddo molte sono le segnalazioni sui disagi (e tragedie) di persone senza dimora, senza una casa. Il Papa stesso, ad un suo recente Angelus, ha ricordato con dolore un “senza tetto” morto di freddo proprio in piazza San Pietro, ma anche nel Trentino si sono verificate emergenze tali da mobilitare solidarietà.
Mi sembra giusto, in questo contesto, ricordare i “barboni” che passano la notte in maniera precaria ed in particolare uno di questi, Arturo. Non è stato certo un protagonista nella vita sociale (!), ma con la sua presenza può ben rivendicare di aver motivato riflessioni sociali e civili profonde, ed anche fratellanza nella comunità trentina. In molti hanno conosciuto questo personaggio, spesso sdraiato sui bordi dei marciapiedi con la fedele compagnia del vino rosso.
Nella mia attività professionale ho conosciuto Arturo da piccolo, abbandonato dalla famiglia e affidato ai Steneghi di Regnana. Il suo”curriculum” lo vede poi come primo ospite della scuola speciale che don Agostino Dalla Pietra aveva istituito nella Fondazione Romani di Nomi, e successivamente affidato ad una famiglia di contadini a Mattarello.
Sperando di fargli fare un salto sul piano del lavoro fu fatto assumere dalla Ignis di Gardolo, ma alcuni poco lungimiranti sindacalisti lo misero alla testa nel corteo Mitolo-Gianpiccolo per la contestazione politica. Luglio 1970. Da quel momento assieme ad altri perse il posto e da lì iniziò la sua lunga carriera di “barbone”, come lo chiamava don Dante.
Le vicissitudini di Arturo sono state molte e quando ormai aveva compiuto i 60 anni siamo riusciti a convincerlo a rimanere nella casa di riposo di Nomi, anche perché in seguito ad un incidente stradale aveva problemi di deambulazione. Amici e giornalisti alla festa dei familiari attorniavano il suo tavolo e la nostra casa era il suo punto di riferimento. Sono passati quattro anni da quando riposa nel piccolo loculo del cimitero di Mori, ma la sua figura è ancora presente in molti trentini che lo ricordano con tanta simpatia e affetto. Non era un personaggio importante ma un grande uomo buono, ove l’essere nato come ultimo gli ha fatto trascorrere una vita che per la sua bontà d’animo non ha mai avuto a che fare con il codice penale. Arturo rappresenta per i trentini non il disadattato negativo, ma un uomo che incuteva tenerezza anche per chi non sapeva la sua tragica storia di vita. Arturo: i trentini ti ricordano spesso e molti mi chiedono se ci sei ancora e la mia risposta è sempre affermativa.
Paolo Cavagnoli

I trentini volevano bene all’Arturo, come ad altri “barboni” storici. Lo aiutavano nella sua libertà traendolo dal degrado in cui poteva cadere quando il vino rosso diventava troppo. I “barboni”, come i “clochard” parigini (resta indimenticabile il romanzo di Roth sul “santo bevitore” con il film di Ermanno Olmi) erano quasi un’istituzione a Trento, non solo da accogliere con solidarietà cristiana (i “minimi” del Vangelo) ma da considerare come componenti della convivenza civile. Non certo i peggiori.
I barboni sono cambiati, ma ci sono ancora, senza dimora non per vizio, ma perché esuli da se stessi. Non solo hanno perso tutto, ma qualcosa nella vita gli si è spezzato dentro: una ferita, un dolore insanabile, una dignità perduta. I trentini sapevano riconoscere questa emarginazione: l’accettavano e la rispettavano. Non erano accattoni, non chiedevano nulla, ricevevano se qualcuno donava qualcosa. Avevano anche i loro spazi. Prima che venisse costruito il grande parcheggio il luogo era piazza Fiera, sulle panchine addossate alle mura: i “Baroni del Sol” venivano chiamati, riconoscendo loro una peculiare, libera, nobiltà. Poi fra le mura e la piazza hanno fatto un by-pass di strada e le panchine sono scomparse.
Uno dei motivi che hanno portato don Dante a istituire il “Punto d’Incontro” è stato anche il proposito di consentire dignità, prima che si radicassero i problemi migratori, a queste vite “ultime” spezzate. Lui stesso s’era fatto crescere una gran barba e al suo “Incontro” un piatto di minestra c’era per tutti. Un vestito pulito non mancava neppure ad Arturo, ché le famiglie portavano lì gli abiti dismessi, o dimenticati.
All’Arturo la gente voleva bene, anche se non ne conosceva la storia e va detto un “grazie” a Paolo Cavagnoli per averla raccontata. C’è molto da imparare, da cittadini prima che da uomini.
Un altro “barbone” storico di quegli anni era Lino. Lino Ianeselli, non forse amato come l’Arturo, ma rispettato: dignitoso, severo, scontroso. Lino era un ex ufficiale dell’esercito e pochi sanno la sua storia. Sul volto scavato portava i segni di profonde ferite nell’anima. Le nascondeva con pudore.
Lino non dormiva all’aperto, ma chiedeva di fermarsi nel sottoscala di piazza Lodron dove il vecchio “Alto Adige” aveva la redazione. Dormiva nel deposito dei cartoni e delle “rese” dei giornali, che gli servivano per stare al caldo ed anche per leggerli. Era sempre informato, Lino. Interrogava ed anche acutamente provocava chi saliva in redazione. Salutava con occhio severo, come dovesse ancora passare in rassegna i suoi soldati. Si alzava prestissimo e andava a lavarsi a petto nudo, per essere pulito, alla fontana di piazza Garzetti prima del’alba, per non infastidire nessuno, né i contadini che venivano con i loro banchetti, né i primi passanti.
Ora la Chiesa trentina, attraverso la Caritas ha messo a disposizione dei senzatetto una chiesa, quella di Centochiavi, dedicata a padre Kolbe. Come stanno facendo in queste notti i volontari nella chiesa allestita provvisoriamente come dormitorio, va aiutato chi è esule da se stesso, perché non si degradi come accade nei bivacchi davanti all’Auditorium o alla palazzina Liberty. I “barboni”, infatti ci interrogano: “Quanti di noi potrebbero seguire il loro destino se fossero stati meno fortunati, meno amati, più feriti”?

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