Via dall’Afghanistan, l’Europa si piega agli Usa

Foto EPA/WATAN YAR

La decisione è ufficialmente presa: gli americani ritirano i propri soldati, circa 2.500 unità, dall’Afghanistan. Chi si aspettava un diverso atteggiamento da parte del nuovo presidente americano Joe Biden è rimasto deluso. Rispetto a Donald Trump che già aveva fissato il 1° maggio come data dello sgombero, Biden ha prorogato il termine all’11 settembre, giornata simbolo nell’immaginario collettivo americano a vent’anni dall’attacco di Al Qaeda alle due Torri e del successivo sbarco Usa in Afghanistan.

L’obiettivo allora, ottobre del 2001, era quello di punire il regime dei Talebani che ospitavano i terroristi di Bin Laden.

Sembrava una guerra lampo, ma è durata vent’anni. In questo lungo lasso di tempo oltre 2.300 soldati americani sono morti, 20.000 feriti in modo grave e alle casse dello Stato la guerra è costata quasi un trilione di dollari, una cifra enorme. Per non parlare poi delle sofferenze inflitte alle forze di sicurezza del nuovo governo afghano, circa 60.000 uccisi, e soprattutto alla popolazione con cifre doppie di morti e un numero incalcolabile di feriti.

Ma al di là di queste drammatiche cifre, ne è valsa la pena? Vi è stato un periodo, nei primi anni dopo l’invasione, nel corso del quale terroristi e Talebani sembravano scomparsi dal Paese, fuggiti nelle valli impervie del confinante Pakistan. Quindi l’opera di ricostruzione materiale e civile poteva avere inizio. Si aprivano le scuole anche per le bambine, escluse dall’istruzione sotto il regime talebano, e prendeva gradualmente vita il ruolo politico e imprenditoriale delle donne, in precedenza completamente al margine della società.

Con l’uccisione nel maggio del 2011 di Osama bin Laden sembrò davvero che la vicenda afghana fosse destinata a chiudersi positivamente. Nel decennio che ne è seguito è successo esattamente il contrario. Al Qaeda è stata sostituita dall’ancora più sanguinario Isis e i Talebani hanno cominciato a rientrare nel Paese dai loro rifugi in Pakistan, riprendendosi larghe parti del territorio.
Oggi siamo quindi nell’imbarazzante situazione di abbandonare gli afghani al loro destino, nutrendo ben poche illusioni sulla loro capacità militare e politica di resistere alla pressione crescente dei Talebani.

Il guaio è che in tutta questa lunga vicenda non vi sono solo gli americani, ma l’intera Nato che si era già da subito affiancata alla voglia di vendetta di Washington dopo l’11 settembre.
Noi italiani siamo ad esempio oggi presenti con 895 militari e abbiamo subìto nel tempo la perdita di 55 soldati. Lo stesso vale per gli altri Paesi.

In questi ultimi anni il compito delle truppe della Nato si era gradualmente trasformato in una missione di rafforzamento delle strutture dello Stato afghano e di addestramento dell’esercito e delle forze di sicurezza, proprio allo scopo di creare una linea di difesa di fronte alla penetrazione dei Talebani.

Difficile quindi stabilire una data precisa per potere dichiarare che le condizioni di sicurezza e di difesa sono state davvero raggiunte.

Perciò dopo tanti sforzi, vite messe a rischio e grandi spese sostenute per creare una nuova società civile, si avverte un grande imbarazzo da parte degli alleati europei della Nato di fronte al diktat americano di sgombrare il campo.

Ancora una volta, anche se in modo meno aggressivo di quello adottato da Trump, gli europei comprendono di non avere sufficiente voce e peso all’interno dell’Alleanza Atlantica. Ciò che Washington decide, difficilmente può essere messo in discussione.

Così oggi siamo costretti a sperare nel buon esito di alcuni sforzi negoziali orientati a stabilizzare la situazione interna in Afghanistan.

Il 29 febbraio dello scorso anno a Doha è stato raggiunto l’accordo di base fra americani e Talebani per un cessate il fuoco che permettesse il ritiro delle truppe Nato e il dialogo in Afghanistan fra governo e Talebani. Parallelamente è entrata in gioco la Turchia, membro della Nato, ma anche Paese che vuole giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente. Così il presidente Erdogan ha proposto che a fine aprile (dopo un paio di rinvii) si tenga una conferenza ad Istanbul che metta intorno al tavolo le parti in conflitto per trovare una soluzione di compromesso sul futuro politico e istituzionale del Paese. Peccato che i Talebani abbiano fino ad oggi rifiutato di sedersi allo stesso tavolo con i governativi.

Una analoga opera di mediazione vorrebbe farla anche la Russia, che vuole ribadire il suo ruolo di primo attore nella regione. Insomma già si intravvedono i segnali del solito caos mediorientale e della lotta di potere fra Paesi e etnie.

Temiamo purtroppo che quella dell’Afghanistan sia l’ennesima prova del fallimento della politica estera americana in Medio Oriente e, soprattutto, la conferma dell’irrilevanza dell’Europa in un’area di nostro primario interesse, verso la quale tuttavia non siamo in grado di svolgere un ruolo unitario ed efficace.

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