Comunicare tra lingue

La rivista “Caritas” della Diocesi di Bolzano-Bressanone

“Il metro di misura della collaborazione e della convivenza fra i gruppi linguistici sembra consistere nel fatto che il gruppo ‘più debole’ si senta più o meno accolto e protetto”. Oppure, più esplicitamente: “È compito dei ‘forti’ prendersi cura dei ‘deboli’”. Sono considerazioni che emergono dall’indagine svolta nella diocesi di Bolzano-Bressanone in questi mesi, presentata a Bolzano la settimana scorsa in occasione della visita di una delegazione carinziana bilingue, nell’ambito di un progetto di scambio e dialogo tra diocesi di confine.

Già i documenti del Sinodo diocesano hanno dato indicazioni chiare: “Nelle comunità cristiane i membri di un gruppo linguistico sono corresponsabili anche per i membri di altri gruppi linguistici”. Oppure: “Apposite regole garantiscono la pari dignità e la corresponsabilità delle diverse componenti linguistiche, evitando l’appiattimento sull’una o l’altra tradizione”.

Sul confine nulla è scontato. Si fa presto a erigere muri, a chiudere porte e a tagliare i ponti. Più complesso e laborioso è il percorso che conduce al dialogo, all’apertura, alla condivisione e alla corresponsabilità. “La nostra Chiesa – dice ancora il Sinodo – è chiamata a promuovere una ‘convivenza nella differenza’, perché la bellezza del nostro territorio possa rispecchiarsi in un tessuto sociale amabile, dove si vive come parte di sé la cultura e la lingua dell’altro”.

Per dare attuazione a questi propositi, da poco più di un anno è stato creato un gruppo di lavoro denominato “Comunicare fra lingue”. Esso fa capo all’Ufficio pastorale diocesano e si compone di undici membri, laici e sacerdoti provenienti da diverse parrocchie e servizi diocesani.

Il primo progetto avviato dal gruppo di lavoro è un sondaggio di tipo qualitativo che ha coinvolto dieci parrocchie della diocesi, scelte in base alle dimensioni, alla posizione geografica e alla composizione linguistica. Sono stati intervistati il parroco e due rappresentanti dei diversi gruppi. I risultati sono stati infine raccolti in una sorta di vademecum.

Dall’indagine emerge una realtà variegata, con differenze da parrocchia a parrocchia e tuttavia con alcuni significativi tratti comuni. A volte si tratta di situazioni contraddittorie. Ad esempio: in genere si riconosce la presenza di più lingue come una ricchezza della comunità, al tempo stesso emerge la paura di perdere, nell’incontro, qualcosa sul piano identitario. Non si tratta solo dell’uso della lingua, ma anche delle tradizioni, alcune molto vecchie (pensiamo alle processioni), rispetto alle quali l’inclusione è percepita come disturbo. In tal caso, suggerisce il vademecum, senza forzare le rigidità della tradizione, conviene inventare cose nuove, condivise, che poi, un domani o un dopodomani, diverranno tradizione a loro volta.

Altri punti riguardano la cura delle lingue nella liturgia, l’importanza di organizzare insieme, il ruolo fondamentale delle persone bilingui e della conoscenza, almeno passiva, della lingua dell’altro. In questo modo sono possibili le riunioni del Consiglio pastorale parrocchiale nelle quali ognuno sia messo in condizione di parlare la propria lingua.

Ci sono ostacoli anche nella società che impediscono una reciproca conoscenza tra le persone fin dalla giovane età e si ripercuotono poi sulla vita delle parrocchie. Un esempio è il sistema scolastico che corre su binari paralleli. In questo senso si può ben dire che la comunità cristiana, come è avvenuto già più volte nella storia altoatesina, è chiamata ad avere un ruolo profetico. E quell’affermazione – “È compito dei ‘forti’ prendersi cura dei ‘deboli’” – è un’indicazione “politica” che va ben al di là dei rapporti tra gruppi linguistici.

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