Autonomia rafforzata e interesse generale

Il dibattito, ma meglio sarebbe dire la cagnara, sulla questione delle competenze regionali rafforzate è semplicemente surreale. La ministra Stefani nella sua intervista ai settimanali diocesani veneti ha espresso una posizione (“Le regioni potranno gestire le risorse relative alle competenze che otterranno”, ha spiegato)non solo ragionevole, ma di buon senso. Purtroppo anche in questo caso siamo ai riflessi di Pavlov da parte dei pasdaran dell’una e dell’altra corrente, fra il resto non tutti disinteressati.

Riconoscere alle regioni che sono in grado di farlo una gestione diretta dei servizi ai cittadini lasciandone alla loro amministrazione l’organizzazione e il controllo risponde a quanto è stato costantemente rivendicato nella storia d’Italia sotto l’etichetta del “decentramento”. Ci sono quintali di libri, dibattiti, interventi sul tema, fatti in genere quando si discuteva di principi per di più ipotetici. Appena si entrava nel concreto, cioè ci si proponeva di attuare il decentramento cascava l’asino. Il massimo è stata la assai pasticciata riforma del 2001 che ha dato alle regioni ampi poteri di intervento su molti settori lasciando però i costi a carico del bilancio generale dello stato. Diciamolo onestamente: ha dato buoni spazi al sottogoverno locale, senza toccare i poteri dei ministeri e senza minacciare un obbligo di controllo sulla spesa delle risorse pubbliche.

Il risultato è che in alcune regioni con un buon livello di classe politica e amministrativa si sono ottenute gestioni migliori, in altre la mancanza di quel livello ha incrementato sprechi e corruzione. La storiella che la riforma attuale creerebbe un paese con cittadini di serie A e di serie B a seconda della residenza si può raccontare eventualmente a dei marziani. Quelli che ci vivono sanno che il Paese è già in queste condizioni: l’esempio della sanità, con le migrazioni interne dal Sud al Nord per farsi curare è palmare (e non è certo perché i meridionali siano medici peggiori, visto che moltissimi di loro costituiscono le eccellenze nella sanità del Nord).

Dunque quale è il vero nocciolo del dilemma? Da un lato si paga la sciocca propaganda fatta dal leghismo d’antan che si è inventato un federalismo immaginario che sognava l’Italia ridotta ad una confederazione di repubblichette ciascuna chiusa nel suo egoismo. Oggi il leghismo responsabile ha cambiato registro e va riconosciuto: la Stefani è una esponente di quel partito. Dal lato opposto si sconta la geremiade intellettuale sul Sud depredato dal Nord, sulla favoletta della secessione dei ricchi. Tutte cose che hanno la loro consolidata tradizione che è sfruttata da politici terrorizzati dalla prospettiva di dover uscire dalla consueta prassi di una spesa irresponsabile che consente di distribuire dividendi (e anche peggio) alle varie componenti più o meno parassitarie.

Sarebbe ora di affrontare invece seriamente il problema di una riorganizzazione del nostro modo di gestire la spesa pubblica, specialmente là dove incide sulla vita delle persone (sanità, scuola, infrastrutture, ecc.). Persino lo stato storicamente bandiera del centralismo amministrativo, cioè la Francia, che pure ha una amministrazione molto efficiente, con la riforma costituzionale del 2003 ha introdotto nell’art. 1 della sua Carta il principio della decentralizzazione a favore delle sue regioni.

Questo significa accedere al principio del “ogni regione per sé e per tutti un pallido simulacro di solidarietà verso quelle meno fortunate”? Certamente no. Non è solo questione di far notare che attualmente col fatto che le risorse che verranno lasciate alle regioni con più autonomia corrispondono alla “spesa storica” per ciascun settore rimane tutto com’è nella distribuzione dei soldi. Si tratta piuttosto di rendere chiaro che comunque il dovere delle regioni rimane quello di gestire quanto arriva alla loro competenza nell’interesse generale: andrebbe ricordato che non esistono costituzionalmente cittadini veneti, lombardi, emiliani o che altro, ma cittadini italiani che risiedono in quelle regioni, a cui si può accedere liberamente.

Le autonomie si giustificano per migliorare il quadro civile e sociale del nostro paese, che rimane l’Italia: devono essere un laboratorio e un esempio per mostrare a tutti cosa si può fare quando si governa con responsabilità e vicinanza alle esigenze di sviluppo dei cittadini.

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