Il dialogo ha bisogno di testimoni, come Salah

Non ce l'ha fatta, Salah Farah, l'insegnante musulmano ferito in Kenya a metà dicembre 2015 da miliziani di al-Shabaab mentre cercava proteggere i suoi allievi cristiani. E' morto il 17 gennaio scorso al Kenyatta National Hospital di Nairobi. La notizia del suo gesto, che le autorità locali avevano subito definito “eroico”, aveva rotto il muro di gomma dell'informazione mainstream, capace di commuoversi per la nascita di un piccolo di panda in cattività (e ci può stare), ma troppo spesso poco attenta a quello che avviene neppure troppo distante da noi. E anche la notizia della sua morte, ripresa da grandi testate internazionali, ha avuto in questi giorni una vasta eco.

“Siamo tutti fratelli”: erano state queste le ultime parole di Salah Farah, prima di essere colpito, per essersi rifiutato di separare in due gruppi di cristiani e di mussulmani gli studenti che viaggiavano su un pullman, nei pressi di Mandera. Questa la sua colpa, agli occhi dei terroristi che, secondo un tragico copione già visto, avevano promesso di risparmiare i mussulmani. “Uccideteci tutti o lasciateci andare tutti”, aveva risposto Salah Farah, e i terroristi avevano reagito sparando, uccidendo due persone e ferendo Farah e altri due, per poi allontanarsi al sopraggiungere di un altro automezzo.

"Speravamo di salvarlo, così che potesse essere un testimone vivente della possibilità di farsi custodi dei propri fratelli", ha detto una funzionaria del Ministero della Salute keniota.

Testimone, cioè martire, in senso etimologico. Lui sì, martire, con un appellativo usurpato da chi si arroga il diritto di autodefinirsi martire (come gli assassini di Parigi e gli autori delle stragi più recenti di Jakarta in Indonesia e dell’università di Charsadda in Pakistan).

“Quest’uomo (Salah Farah, ndr) non aveva letto un altro Corano e pregato un altro Dio”, ha scritto su “Mosaico di pace” padre Tonio Dell'Olio. “Solo che ci sono musulmani e musulmani, cristiani e cristiani. L’insegnamento di quest’uomo suggellato col sacrificio della vita insegni almeno a noi l’importanza della convivenza pacifica”.

Testimone-martire di quella convivenza pacifica che, nonostante gli attacchi di chi alimenta quella terza guerra mondiale “a pezzi” che denuncia instancabilmente Papa Francesco, in diverse parti del mondo molti si ostinano a perseguire. Come le Chiese cattolica, anglicana e pentecostale che in Pakistan domenica 24 hanno promosso una giornata nazionale di preghiera per le vittime del terrorismo e per la pace (incassando l'apprezzamento della comunità musulmana). Come l'Università di Betlemme, dove in questi giorni è partito il corso, avviato già da qualche anno, dedicato al dialogo interreligioso e frequentato da studenti cristiani e musulmani. Come la comunità monastica cristiana – nata dall’esperienza di Deir Mar Musa, in Siria – di Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno, una realtà che promuove e persegue il dialogo con l'islam. Un incontro che, come ha mostrato l'appuntamento promosso a Gardolo dagli scout dell'Agesci (vedi a pagina 10), non solo è possibile, ma rappresenta oggi un cammino obbligato. Come ha ribadito Papa Francesco il 26 gennaio scorso, ricevendo in Vaticano il presidente dell’Iran, Hassan Rouhani. L'incontro è stato occasione per rimarcare l’importanza del dialogo interreligioso e “la responsabilità delle comunità religiose nella promozione della riconciliazione, della tolleranza e della pace”. Pur non nascondendo che esistono ancora “molti problemi legati ai diritti umani” in Iran, padre Bernardo Cervellara su AsiaNews giudica che l'incontro faccia riaffiorare “la speranza di stabilizzare la regione e fermare l’eccidio dei cristiani condannati a scomparire dalla minaccia di al Qaeda e dell’Isis”, oltre che un'opportunità per rilanciare “il dialogo fra culture, religioni e popoli”.

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