Il vero virus: la “distrazione” da troppe tragedie

Vignetta di Fulber

Lo spunto

“Coronavirus” incute paura. Quell’angoscia subdola, strisciante che ci attanaglia, e ci fa sentire più deboli e sottomessi. La paura, l’arma del nuovo millennio, usata ed abusata. La paura ha lo stesso effetto di una rasoiata. La paura è l’essenza che toglie il respiro, che ci porta a vivere in apnea… è quello stato di torpore che ci rende impotenti di fronte agli eventi. La speranza? Sta essenzialmente nella forza di sollevare il capo sopra il pelo dell’acqua, nel trovare il coraggio di uscire dal
cerchio concentrico, che è vortice che risucchia. Non facciamoci intimorire dal dito ammonitore dei media, ma piuttosto cerchiamo, nella ricerca della verità, una risposta. 

Corrado Zanol – Caoriana

Siamo capaci di ossequio per paura di ammalarci di niente, ma siamo indifferenti alla strage di bambini in Siria o alla invasione di cavallette in Africa, o ai ghiacci dell’Antartide che si sciolgono. Questa distrazione è la vera emergenza globale.

Antonio Marchi – Trento

Queste due lettere, molto differenti l’una dall’altra, hanno però in comune l’indicazione precisa di quali problemi pone al nostro modo di vivere il coronavirus e quali atteggiamenti richiede per essere combattuto. Perché la vera emergenza globale, di fronte a un morbo che, come hanno scritto illustri medici infettologi, “non è una comune influenza, ma non è neppure la peste”, che è trasmigrato dagli animali all’uomo, che si diffonde su scala planetaria “usando” gli strumenti della civiltà di massa che ci avvolge, (i viaggi, gli aerei, gli assembramenti…) è proprio quella che indicano Zanol e Marchi. Da un lato c’è l’antica paura verso ciò che non si conosce, dall’altro la “distrazione” di fronte a tragedie ben più profonde che colpiscono ogni giorno bambini, donne, uomini. Questa è la prima emergenza, ed è “politica” come già ben sapeva il Manzoni, scrivendo di untori e monatti, governatori e cardinali, nel suo romanzo sugli sposi promessi e la peste del 1630. Politica, perché se gli Stati non sanno mantenere la pace (allora c’erano i Lanzichenecchi, oggi i “Contractors” delle potenze l’una contro l’altra armate, qui si diffondono i virus, ma in Siria, in Libia, a Kabul … piovono bombe) è inutile che esse pretendano di gestire soccorsi, medici di base e farmacie.

Il disordine globale crea le epidemie globali. La paura nasce invece dallo smarrimento di quanti, assuefatti al consumismo anche medicale, si accorgono ché la lotta al virus richiede comportamenti di intelligenza concreta (e non artificiale) ormai dimenticati.

Con l’influenza un tempo si stava semplicemente a casa, ma come si fa oggi a non muoversi senza fermare tutto? A scuola, in classe, la prima ora, la maestra ispezionava mani ed unghie agli scolaretti: “Mani in prima”, diceva. Mani sul banco quindi (le “mani in seconda” erano quelle tenute dietro la schiena per stare attenti e non giocare con le matite, o con pive e palline di carta) e se le mani erano sporche si andava in bagno per lavarsele.

Oggi chi guarda più le mani ai ragazzi? Non è una intrusione nella “privacy”? E chi si lava le mani quando torna a casa? Non è un sopruso antiquato della mamma? Oggi, con il “virus”, questi comportamenti vengono imposti per decreto, ma funzionano solo perché c’è la paura di contaminarsi, non perché l’igiene sia sentita come componente irrinunciabile della dignità personale. Il virus, quindi, continua a far paura perché suggerisce che per vivere in una società di massa avanzata, occorre ripartire da comportamenti semplici, non tecnologici, perché non ci sono pillole “scientifiche” o miracolose che guariscono, ma solo prevenzioni che rispettano un senso del limite da non oltrepassare, un rispetto reciproco da osservare. E’ la natura che a livello esistenziale si sta prendendo la sua rivincita, come fa con Vaia e lo scioglimento dei ghiacciai sull’ambiente, non solo in Antartide, ma sulle porte di casa, in Marmolada, sull’Adamello.

Davvero allora l’emergenza sta nel rivendicare comportamenti semplici e nel non dimenticare i problemi veri, ché di virus si può anche morire, certo, ma quanti non sono i morti quotidiani delle moto sulle strade turistiche in estate? E quanti i giovani (e le loro famiglie!) vittime della droga, nelle strade, nelle discoteche, senza che nessuno imponga prevenzioni, coprifuoco, chiusure, tamponi? Il virus non è una maledizione, è un semaforo giallo che si accende sulle nostre giornate. “Attenzione – dice – attenti, in un mondo sempre più globale e disordinato, consumato per ingordigia di denaro e violento perché non rispetta se stesso e la vita dei più piccoli e deboli, di virus ne verranno altri. Molti altri. Occorre ritrovare misura, non basta un vaccino. Occorre un limite. Occorre prevenire, ma occorre anche fare. Controllare prima,non dopo. Sotto questo aspetto il sistema sanitario italiano ha dimostrato di essere uno dei migliori del mondo, ma ha anche mostrato carenze su cui intervenire. E’ bene decentrare i presidi sanitari, le realtà troppo affollate diventano incubatori di virus a loro volta. E i medici di base – veri eroi di queste giornate – vanno incentivati, sostenuti e aiutati ad essere punti di riferimento, di informazione, di primo intervento. Sono molto più di terminali computerizzati di fronte a protocolli da applicare come tanti vorrebbero ridurli.

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