Libano, armoniosa terra di contrasti

Impressioni da un pellegrinaggio diocesano diverso

Le mie reminiscenze scolastiche riguardo al Libano mi rimandavano genericamente a una terra  fertile, bagnata dal mare, culla di antiche civiltà, “cuscinetto” scomodo  tra Siria e Israele, sempre  oggetto di contesa da parte di altre potenze per la sua posizione strategica. Ricordavo  sommariamente anche le cronache  della guerra fratricida durata per decenni  negli anni settanta-novanta. Recentemente avevo seguito sulla stampa (superficialmente, lo confesso), la narrazione di storie di profughi confluiti in massa da Palestina e Siria  e ammassati  in campi di raccolta. Un conto, però, è il sapere, un altro è il constatare di persona!

Nella settimana trascorsa in Libano, ho goduto dei suoi  paesaggi eterogenei, le tranquille baie sulla costa, le piane coltivate, i frutteti, le piantagioni di banane, le vigne, e poi  gli oliveti  che “macchiano” di  verde i terrazzamenti di  terra giallastra sostenuta  da splendidi muretti a secco sui declivi; sullo sfondo  sempre le bianche e rotondeggianti cime dei monti, tra cui spicca quella del biblico Hermon.  Per visitare quel che resta della mitica foresta dei cedri  siamo saliti a quota 2.000 m., transitando tra moderni centri sciistici che nulla hanno da invidiare ai nostri.  I maestosi cedri ci hanno regalato il loro profumo e la loro ombra; non è  difficile capire perché il cedro sia diventato il simbolo del Paese e ovunque riportato in maniera stilizzata a partire dalla bandiera nazionale. Girovagando, abbiamo poi scoperto tanti altri tesori inestimabili pensati e creati dall’uomo. Siti archeologici (Tiro, Sidone, Baalbeck, Byblos) che testimoniano come anche migliaia di anni fa imperassero ingegnosità, capacità, buongusto, raffinatezza e determinazione nel voler realizzare qualcosa che resistesse nel tempo. La guerra ha deteriorato duramente non pochi capolavori, ma a farne le spese è stata soprattutto la popolazione civile. Nella capitale coesistono grattacieli avveniristici e case sventrate  dalle bombe; palazzi, monumenti e luoghi di culto ristrutturati magistralmente, accanto a casupole o condomini fatiscenti.

Passeggiando per il centro di Beirut abbiamo visto a fianco delle scintillanti vetrine, di tutte le più famose case di moda internazionali, anche quelle dei saloni automobilistici  che esponevano gli ultimi modelli di  Rolls Royce, Bentley, Mercedes e Maserati!

Mentre percorrevamo in pullman la strada che ci conduceva a Baalbek ci ha impressionato vedere  dal finestrino decine di agglomerati di baracche o di tende presidiati da militari in assetto di guerra, con tanto di carri armati parcheggiati a bordo strada. In quei centri di raccolta vivono persone fuggite dai loro paesi di origine, che si ritrovano ora senza patria, senza cittadinanza, spesso senza lavoro e, soprattutto, senza speranza. Ammontano a circa 1.500.000 coloro che vivono in questa situazione. Se pensiamo che la superficie del Libano è inferiore a quella del Trentino Alto Adige e che la popolazione autoctona è di circa 4.500.000 unità, possiamo ben comprendere  quali scompensi la presenza dei rifugiati abbia apportato alla “normalità” di vita. Come spesso succede è la Chiesa a colmare tante lacune.

Ne abbiamo avuto testimonianza visitando Jabboule’, il villaggio dove  visse da eremita il venerabile  P. Romano Bottegal,  monaco originario di S. Donà di Lamon. Le suore melchite, custodi del suo eremo, gestiscono un orfanatrofio e una scuola che ospita bambini e ragazzi di ogni appartenenza religiosa. Il loro messaggio è quello della convivenza pacifica e dell’insegnamento di una fraternità diffusa. Ci hanno accolti con una gioia tangibile; mentre servivano il pranzo preparato con i loro prodotti (hanno una fattoria di bestiame e coltivano frutta e verdura),  facevano a gara a raccontarci episodi della vita di P. Romano e a illustrarci il loro servizio all’interno della comunità. Ci hanno spiegato, sempre con il sorriso sulle labbra,   che il luogo in cui vivono è situato proprio al centro della “zona  rossa” e che pertanto sperimentano sempre una pace precaria, così come incerto è spesso il loro sostentamento. E’ stato emozionante condividere con alcune di loro l’Eucarestia, celebrata nella cappella dedicata alla Madonna del Buon Servizio; con fierezza hanno partecipato attivamente cantando il Salmo  Responsoriale in lingua araba. La loro semplicità disarmante, la simpatia contagiosa,  abbinate ad una malcelata “soddisfazione” per l’inconsueta e importante (!) nostra visita,  ci ha fatti tutti tornare all’ingenuità dei bambini.

Lo stesso vale anche per la conoscenza dei due giovani sacerdoti maroniti che abbiamo incontrato al Santuario della Madonna di Al Tall, a Deir–El–Kamal. Lieti di poter parlare in italiano (hanno studiato un paio di anni a Roma)  con voci possenti ci hanno dedicato un paio di melodiose canzoni nella loro antica lingua aramaica, ma ci hanno anche più volte richiesto con grande  umiltà di ricordarci di loro e della loro comunità nella preghiera. Lo hanno fatto con una certa insistenza,  quasi ce lo hanno gridato, accompagnando la nostra partenza.

In Libano convivono, non senza fatica, diciotto confessioni religiose; la prevalente è quella mussulmana ma ci sono anche, purtroppo in costante calo a causa della guerra e delle ritorsioni perpetuate nei loro confronti, le chiese cristiano-cattoliche rappresentate da maroniti e melchiti. Nei centri abitati   svettano verso il cielo i minareti accanto ai campanili ed è facile sentire in contemporanea un festoso scampanio accompagnato dal canto del Muezzin. Ne deduciamo che fondamentale per l’uomo è sempre la ricerca di Dio, qualsiasi nome gli si attribuisca. Nei monasteri, negli eremitaggi e  nelle chiese che abbiamo visitato, oltre ad ammirare mosaici dai vividi colori, icone austere, rappresentazioni del divino in una moltitudine di fogge, abbiamo incontrato anche tanti fedeli che dignitosamente, con compostezza e in silenzio pregavano Dio, la Madonna, il loro amato San Charbel, o S. Antonio Abate. 

Nella cattedrale di S. Barbara, a Baalbek, abbiamo incontrato delle persone (sagrestani o custodi) che ci hanno illustrato i dipinti e le icone in essa contenuti e indicato la tomba in cui è riposto il corpo del venerabile P. Romano Bottegal: lo hanno fatto con tale serietà e contegno che siamo rimasti davvero edificati.

In Libano abbiamo intuito che “conversione” e “perdono reciproco” non sono soltanto parole.  Speriamo così, con tutti i libanesi,  di poter far nostra la promessa che Dio ha fatto ai credenti del suo popolo: “Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano. Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano”. (Osea 14, 5-8).

Giuliana Berloffa

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