Note che curano

Nelle persone con il morbo di Alzheimer le stimolazioni musicali possono aiutare a ridurre i disturbi del comportamento, rallentando il decadimento. “Altrarmonia” è un progetto di musicoterapia che coinvolge anche famigliari e caregivers

Anna tiene il tempo battendo a ritmo i legnetti. Mario e Antonio intonano il ritornello di un canto popolare. Tutti e tre sono anziani, tutti e tre sono persone con il morbo di Alzhiemer. I nomi sono di fantasia, ma la situazione è reale. I “vecchietti” sono impegnati, assieme a un famigliare o alla loro assistente, in una seduta di musicoterapia all’interno del progetto “AltrAmonia”. L’ideatrice è Irene Bottura, 29 anni, musicoterapista, che, una volta terminato il percorso di studi, ha proposto la sua idea all’Associazione Alzheimer Onlus di Trento, trovando il sostegno della Fondazione Cassa Rurale di Trento. Il primo ciclo d’incontri si è svolto da marzo a maggio, mentre il secondo – altri dieci incontri a cadenza settimanale – è previsto da ottobre a dicembre. L’obiettivo è quello di portare avanti il progetto anche nel 2016, inserendo al suo interno un gruppo auto mutuo aiuto per i caregivers.

“Volevo proporre qualcosa di diverso, qualcosa che coinvolgesse non solo il malato, ma anche il suo caregiver”, spiega la giovane trentina. “L’Alzheimer è una patologia grave e complessa e ancora relativamente poco conosciuta; avere un malato in casa può rappresentare una notevole difficoltà e per questo vanno creati dei momenti di armonia e condivisione, per aiutare anche famigliari e assistenti a stare assieme agli altri senza sentirsi a disagio”.

Le sedute di musicoterapia durano circa un’ora e mezza e sono suddivise in diversi momenti: dopo una canzone di benvenuto si passa agli esercizi di stimolazione cognitiva, attraverso il suono e le variazioni di ritmo. Poi spazio al canto – su basi liriche o popolari – per stimolare la memoria e la parte della sfera emotiva. Al centro c’è sempre la musica e la sua capacità di comunicare attraverso un codice alternativo a quello verbale. “Tra le varie attività che proponiamo agli utenti, il canto è quello che stimola maggiormente il cervello perché ne attiva diverse aree: quella dell’intonazione, la parte verbale, la parte ritmica. E non dimentichiamo l’aspetto sociale perché per cantare in coro bisogna saper ascoltare gli altri e non andare per la propria strada”.

I risultati sono, spesso, sorprendenti. “La musicoterapia è una disciplina relativamente nuova, ma l’antropologia e l’etnomusicologia ci dicono che le sue radici sono ben salde”, commenta ancora Irene Bottura. “Non vuole sostituirsi alla medicina, ma può affiancarla, integrarla; può aiutare a rallentare il decadimento, a contenere l’aggressività, il wandering (vagabondaggio), migliorando l’attenzione, la concentrazione e la coordinazione dell’utente”.

Irene ha studiato le reazioni alla musicoterapia anche durante la stesura della tesi del corso biennale in “Operatore Musicale per il Benessere”, frequentato al Conservatorio “Dall'Abaco” di Verona: “C’è chi dopo alcune sedute ha migliorato il tratto grafico, c’è chi dopo essere entrato in sala agitatissimo, con lo strumento in mano si calma e resta tranquillo tutto il giorno. C’è l’utente che si rifiuta di tenere il tempo con i legnetti ma poi lo batte con il piede. E c’è anche stato chi ha imparato da zero un testo di una canzone, riuscendo a ricordarlo a mesi di distanza”, racconta la musicoterapista. “Due utenti sono anche riuscite a creare un contatto tra loro: quella con il livello più avanzato della malattia seguiva sempre l’altra: si aspettavano, si cercavano con gli occhi. Comunicavano”.

Troppo spesso si rischia di dimenticarsi che non esiste solo la sfera della comunicazione verbale: per questo, citando la dicitura inventata e portata avanti dalla formatrice sanitaria Letizia Espanoli, Irene Bottura ricorda che bisognerebbe imparare a non parlare più di “de-mente” ma di “sente-mente”: “Negli stati più avanzati per il famigliare che gli è sempre stato vicino, può risultare difficile ammettere che il proprio caro non lo riconosca più – conclude – Ma anche questo è vero solo in parte. Attraverso momenti di condivisione, possiamo insegnare a vedere il malato sotto un’altra luce. Non parlare non significa non comunicare: può bastare una carezza, o il semplice tono della voce a far percepire la nostra presenza”.

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