Migranti, quello che ci insegnano i corridoi

“Qui finalmente mi sento al sicuro. Sento che sono al sicuro la mia donna e i miei figli”. Aburabia lo ripete ogni volta che ha occasione di raccontare la sua storia quando è invitato nelle scuole o da qualche associazione. Aburabia è uno dei 29 profughi siriani giunti dal nord del Libano a Trento, il 29 febbraio scorso, grazie al primo corridoio umanitario aperto in Europa per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, delle Chiese evangeliche in Italia e della Tavola Valdese, con l’accordo del governo italiano e la conoscenza sul campo dei corpi civili di pace dell’Operazione Colomba dell’associazione Papa Giovanni XXIII (ne racconta la genesi e ne presenta tutta l’attualità la mostra fotografica, con le immagini anche di Vita Trentina, che si aprirà venerdì 27 maggio a Trento e che presentiamo a pagina 4). Altri 150 sono giunti ai primi di aprile, altri ne arriveranno nei prossimi due anni.

Esprime un bisogno elementare, condiviso, Aburabia: quello della sicurezza, per sé e per i propri cari. Quella sicurezza che consente di condurre un'esistenza tranquilla, di coltivare speranze, di progettare il proprio futuro.

Quella sicurezza per Aburabia è stata spazzata via dalla guerra che da cinque lunghi anni ormai fa della Siria un paese lacerato, terreno di scontro di interessi che vanno ben oltre i suoi confini nazionali. E quella sicurezza Aburabia l’ha cercata con caparbia ostinazione: prima lungo le strade e i sentieri che l’hanno portato dal suo quartiere di Homs, raso al suolo dalle bombe, fino alla regione di Akkar, nel nord del Libano; poi a un passo dall’affidarsi, disperato, senza più alcuna prospettiva di tornare nel suo paese, nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Come i 4,6 milioni di siriani, fuggiti lungo la rotta balcanica o attraverso il Mediterraneo, per percorsi difficili, rischiosi; come i 60 milioni di profughi che l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) stima ci siano nel mondo e per i quali il primo World Humanitarian Summit, promosso a Istanbul dalle Nazioni Unite il 23-24 maggio, ha provato a trovare delle risposte.

Qualcuno, in nome della sicurezza, pensa siano quelle dei muri e delle barriere. Proprio da Istanbul partiva quella “rotta balcanica”, oggi interdetta. I primi pesanti colpi inferti ai valori fondanti dell’Europa – l’Europa di Monnet, Schuman, Degasperi, Spinelli -, la tolleranza e il rispetto delle differenze culturali, è arrivato dai paesi dell’Europa centrale e orientale: Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia. Sono state innalzate reti di filo spinato ai confini (è il caso della Macedonia e della Slovenia). Il sistema Schengen è a rischio, traballa il principio della libertà di movimento, uno dei risultati più grandi dell’Unione europea negli ultimi anni.

La crisi dei migranti – crisi epocale – ci mostra un'Europa incerta, altalenante, capace solo di offrire risposte contraddittorie, mettendo insieme missioni di salvataggio e proposte di ridistribuzione dei richiedenti asilo, accordi con la Turchia (soldi in cambio di visti) e tentativi di controllo delle frontiere esterne dell'Unione (è il compito di Frontex). Il tutto nell'assenza di un'opinione pubblica europea e nel contagioso diffondersi degli egoismi nazionali. Ci illudiamo di contenere il problema parcellizzandolo, in nome di una “sicurezza” che suona ben diversa da quella invocata dal mite Aburabia. Le ultime vicende al Brennero ne sono l'ennesima spia.

Fingiamo di non sapere che l’unica strada possibile è quella, faticosa e lunga, che passa per l’Europa, ma che comincia con il riconoscimento della nostra comune umanità. Come ci ricordano la mostra sui corridoi umanitari che si apre venerdì 27 a Trento e le croci di Lampedusa, arrivate in questi giorni a Bolzano, che sabato 28 maggio riallacceranno simbolicamente i Nord e i Sud del mondo nell’incontro al confine promosso dagli scout dell’Agesci (si veda a pagina 24). Ci aiuteranno ad ascoltare, come ha chiesto Papa Francesco nel suo messaggio al Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon in occasione del World Humanitarian Summit, “il grido delle vittime e di coloro che soffrono”. Dove afferma ancora: “Lasciamo che ci diano una lezione di umanità. Cambiamo i nostri stili di vita, le politiche, le scelte economiche, i comportamenti e gli atteggiamenti di superiorità culturale. Imparando dalle vittime e da chi soffre, saremo in grado di costruire un mondo più umano”.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina