Piccoli frutti di pace

Oggi a pochi chilometri da Srebrenica, nel “buco nero” che rimane la Bosnia Erzegovina, un’esperienza di lavoro che è anche ricerca di normalità

C’è una frase che viene pronunciata una sola volta ma che poi rimane conficcata in testa e riecheggia come un mantra durante tutto il documentario. Quasi fosse il filo conduttore, una colonna sonora esile ma potente, di poche parole: “Vogliamo costruire il nostro futuro. Non vendere il nostro dolore”. E poi quel titolo oscuro, almeno per noi, “Dert”, di origini turche, ci viene detto, difficile da tradurre ma che, mano a mano, si svela. Un sorriso, che però, o forse proprio per questo, manifesta, meglio, trattiene, una sofferenza che non impedisce di guardare avanti, evitando di soffermarsi, immobili, sul passato.

Loro sono le donne di Bratunac, a pochi chilometri da Srebrenica, Bosnia Erzegovina, dove, l’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco massacrò la popolazione maschile musulmana tra i 12 e i 90 anni, più di 8000 tra adulti, ragazzi e anziani. Tanto che il memoriale di Potocari neanche li raccoglie tutti. I loro resti ormai dispersi nei prati e nei boschi circostanti, “passati per il camino”, un genocidio. E dove, nel ventennale, lo scorso anno, arrivarono i potenti della Terra per le commemorazioni scendendo dalle macchine blindate salutando, in molti, come delle rock star prima di un concerto. Loro, che non mossero un dito per mettere al riparo quella che era una zona protetta dell’Onu e che fu lasciata alla mercé dei macellai del generale Mladic, merce di scambio, vuoto a perdere.

Rada Žarković, originaria dei dintorni di Mostar da dove è scappata, finita in Croazia e a Belgrado e poi a Sarajevo, laureata in giurisprudenza, Donna in nero, “jugoslava nata in Bosnia” (dice di se stessa) e Skender Hot, ingegnere di Tuzla, non sono di Bratunac, ma lì sono andati, portati da quella diaspora comune che ha segnato milioni e milioni di persone travolte, negli anni Novanta, dalle guerre di dissoluzione della Jugoslavia orfana ormai da un decennio del maresciallo Tito. Si sono conosciuti a Sarajevo, coinvolti dal Consorzio italiano di solidarietà e verso Bratunac si sono diretti per ridare linfa alla coltivazione dei piccoli frutti, che fino ad una trentina d’anni prima era fiorente, “pur non sapendone nulla”, ricordano nella chiacchierata con Nicole Corritore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (il think tank con sede a Rovereto che si occupa di sud-est Europa, Turchia e Caucaso) nel dopo proiezione al festival di cinema e cibo “Tutti nello stesso piatto” organizzato da Mandacarù e Altroconsumo in corso al Teatro Sanbàpolis a Trento sud, dove “Dert”, firmato dai documentaristi napoletani Mario e Stefano Martone, è stato proiettato nei giorni scorsi.

Nasce da un’idea di futuro attraverso il lavoro – di cui tante volte Rada Žarković e Skender Hot hanno discusso con il fotoreporter romano Mario Boccia, veterano delle guerre nella ex Jugoslavia e anche lui protagonista del doc – la cooperativa agricola “Insieme”, composta oggi da 500 famiglie dalle 10 iniziali, con il sostegno di altre 200 che portano frutti selvatici alla coop per la lavorazione. Era il 2003. E grazie ad una solidarietà diffusa, quella che parte dal basso e che poi cerca sensibilità più in alto, quest’esperienza – partita dal Trentino – ha potuto svilupparsi. Le prime 20 mila piantine arrivarono da un’azienda di Baselga di Pinè, altri aiuti dalla cooperazione e dalla Provincia.

Oggi, i prodotti, confetture e succhi di lampone, more e mirtillo nero, “i frutti di pace”, in Trentino vengono distribuiti da Mandacarù e in altre parti d’Italia da Alce Nero per Coop-Italia, Altromercato e Mio Bio.

In quel “buco nero” che rimane la Bosnia, segnata dalle divisioni etniche sancite dagli accordi di Dayton, alle porte di un’Europa incapace di rispondere decentemente ai flussi migratori, a Bratunac “le donne non sono vittime, lavorano fianco a fianco, sono operaie che mettono insieme ciò che la guerra aveva diviso”, sottolinea Mario Boccia. “Senza nessun sostegno da parte delle autorità locali (Bratunac fa parte della Repubblica Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina, l’altra è la Federazione croato-musulmana, ndr). Già il nome della cooperativa non piaceva. Siamo tra le poche aziende agricole con operaie di diverse etnie in una realtà dove la divisione c’è anche sul lavoro”, commenta Skender Hot. “Non abbiamo altra scelta – conclude Rada Žarković – Vogliamo lavoro e normalità. Con orgoglio, perché il mondo è possibile cambiarlo”.

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