Cortine di fumo

Che giudizio dare di quella che sarà solo la prima tornata delle consultazioni al Quirinale? La risposta è abbastanza semplice: siamo per adesso alle schermaglie di una campagna elettorale che non riesce a concludersi perché tutti pensano che sia necessario tenerla in vita per una nuova tornata che non tarderà troppo a venire. Ecco perché tutti i protagonisti si arroccano su posizioni che non hanno altro obiettivo se non quello di essere respinte.

La posizione dell’on. Di Maio non è incomprensibile come sembra, basta tenere conto di quello che è il suo obiettivo e cioè non trovare alla crisi alcuno sbocco che lo includa. Ovviamente il leader dei Cinque Stelle non è uno sprovveduto e dunque sa benissimo che pone condizioni inaccettabili tanto al PD quanto alla Lega. L’ipotesi che gli venga data carta bianca per farsi il governo che vuole pagando solo il prezzo di impegnarsi su un programma pubblico di provvedimenti da realizzare è surreale per due motivi: il primo, banale, è che chiede di fatto che venga sottoscritto almeno la maggior parte del progetto del suo partito, visto che è impensabile che M5S possa rinunciarvi (al massimo potrà smussarne qualche angolo); il secondo è che tutti sanno benissimo che la promessa che il governo si limiterà a fare solo quello è una favola, perché un governo non può sottrarsi all’esercizio della marea di poteri di gestione di cui è titolare. Per inciso: il rinvio che fa al modello tedesco è farlocco, perché in quei contratti si parla di coalizioni che non solo si impegnano su un programma concordato, ma i cui membri partecipano a designare ciascuno propri ministri.

Di conseguenza Di Maio chiede agli altri una resa senza condizioni e per di più umiliante, perché impone al centrodestra di estromettere Berlusconi e al centrosinistra di farlo con Renzi. Sono operazioni che magari da entrambe le parti si potrebbero anche prendere in considerazione, ma in forma morbida, senza pubblicità e nei tempi dovuti, non certo come sottomissione ad una imposizione esterna. Di nuovo, questo il leader dei Cinque Stelle lo sa benissimo, e se agisce così è solo per farsi dire di no ed avere così la giustificazione di fronte al suo elettorato per il fatto che il grande consenso ricevuto non si tradurrà nella salita al governo.

Salvini da questo punto di vista è più furbo. Non si espone ad imporre agli ipotetici alleati umiliazioni, si accontenta di chiedere loro di riconoscergli la centralità nel nuovo centrodestra (cosa che a questi non fa problema) senza però essere costretto a smontarlo. Neppure lui è smanioso di sedere a Palazzo Chigi, dove non potrebbe certo mantenere le sue mirabolanti promesse elettorali, ma sembra disposto a mitigarle nel caso gli venisse concessa una vittoria di immagine. Pensa che il tempo lavori per lui e conta su un esito delle prossime tornate di elezioni regionali ed amministrative che lo consolidino in un ruolo che ha conquistato sul filo di lana.

In fondo entrambi i cosiddetti vincitori del 4 marzo non vogliono infilarsi nell’avventura di un governo senza poter contare su solide maggioranze che in nessun caso potranno avere. Non solo perché governare nei prossimi mesi sarà un affare complicato, ma perché in ogni caso la primavera prossima ci saranno le elezioni europee, cioè una tornata in cui si vota per così dire a ruota libera e dunque è anche troppo facile ricevere sanzioni che poi comunque indeboliscono: una prospettiva niente affatto improbabile dopo mesi di governo in cui non si potranno realizzare le mirabolanti promesse e di conseguenza ci potrà essere un effetto colpo di coda nel sentimento della pubblica opinione.

Gli altri partiti in questo momento contano poco, perché non hanno a disposizione armi alternative: una alleanza PD-FI non avrebbe i numeri, senza contare il fatto che significherebbe la fine per entrambi che non saprebbero come fare a giustificare una simile scelta sia ai loro quadri parlamentari sia ancor più ai loro elettori.

E allora? Temiamo che la strategia di tutti sia quella di tirarla per lunghe in modo possibilmente da evitare elezioni anticipate a giugno (altamente improbabili per la mancanza di tempi tecnici), ma anche in autunno (quando di dovrebbe andare all’esercizio di bilancio provvisorio con ricadute economiche di cui chiunque abbia aspirazioni a stare a lungo al governo non vorrà farsi carico). Quando la situazione sarà finita in un vicolo cieco, l’ipotesi di un governo di tregua di cui nessuno si assumerà la responsabilità, ma di cui nessuno avrà il merito, potrà essere tirata fuori dal cappello, anche se non è serio costringere Mattarella a giocare al ruolo del prestigiatore illusionista.

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