Nel 2011 iniziava anche in Siria la rivolta popolare delle cosiddette “primavere arabe”: l’obiettivo era quello di liberarsi della dittatura rappresentata da Bashar al-Assad. Sono passati ben 13 anni prima di riuscire nell’impresa di obbligare al-Assad a cercare asilo politico nell’alleata Russia. Sono stati anni di feroce guerra civile, di terribili sofferenze per il popolo siriano, di crescente povertà e di enormi flussi di emigranti, quasi 5 milioni fuori dai confini della Siria. Ma non è stata una rivolta popolare a rovesciare il dittatore di Damasco, bensì un movimento armato, HTS, il cui capo, Abu Mohammad al-Jolani, ha sulla propria testa una taglia di ben dieci milioni di dollari che Usa ed Europa hanno deliberato in quanto terrorista. Contraddizioni di un paese che non è più dal 2011 un vero e proprio stato. Anzi, lo si definisce correttamente uno “stato fallito”. In effetti nel nord ovest al confine della Turchia dominano proprio le milizie HTS assieme all’Esercito Nazionale Siriano, anch’esso filoturco; nel nord est operano i vari raggruppamenti dei Curdi siriani, la cosiddetta Federazione Democratica Siriana dichiaratamente antiturca; nel sud del paese esiste poi un variegato mosaico di milizie, gruppi ed etnie su cui Damasco non ha alcun vero potere. Insomma, un vero e proprio caos dal quale il presidente eletto Trump ha dichiarato a caldo che gli Stati Uniti devono stare alla larga.
Ma se dal 2011 questa è oggi la ingestibile situazione politica interna, la vera ragione della precarietà della Siria è dovuta alla sua collocazione geografica nella lotta fratricida fra i due maggiori filoni della religione musulmana: sunniti contro sciiti. Questi ultimi, come è noto, sono dominati dall’Iran a dai suoi ayatollah, che da decenni ormai cercano di diffondere la loro influenza in un Medio Oriente largamente dominato dai sunniti. Così Teheran, dopo l’assurdo attacco americano del 2003 all’Iraq con il rovesciamento di Saddam Hussein, è riuscito ad instaurare a Bagdad un governo sciita in un paese largamente sunnita. In Siria, invece, Teheran ha potuto contare sui quasi cinquant’anni di potere assoluto della famiglia al-Assad, espressione della minoranza sciita degli Alawiti. Infine, gli ayatollah sono riusciti ad insediare nel Libano una milizia armata sciita, gli Hezbollah, che tanta parte giocano nelle contese di frontiera con Israele. Insomma, una linea di continuità fra Teheran e Beirut chiamata dai politologi la “scimitarra sciita” che taglia in effetti a metà il mondo sunnita rappresentato a nord dalla Turchia e a sud dagli stati della penisola araba a cominciare dalla storica nemica Arabia Saudita.
In questa situazione è chiaro che chi comanda in Siria può determinare la rottura o la continuità di questa “scimitarra”. Poiché la milizia HTS di al-Jolani è sostenuta e ispirata dalla sunnita Ankara si potrebbe affermare che Teheran ha cominciato a perdere la battaglia volta ad accrescere la sua influenza nella regione. Assieme a sé ha trascinato anche la Russia di Vladimir Putin che con il porto militare di Tartus e la base aerea di Latakia sulle coste siriane pensava di mantenere salda la sua finestra sul Mediterraneo sotto l’ala protettrice di Bashar al-Assad.
A spiazzare sia Mosca che Teheran è stata invece la rapidità con cui le milizie di al-Jolani hanno sbaragliato, senza quasi combattere, l’esercito di Damasco. In meno di due settimane era tutto concluso e neppure le mosse disperate di al-Assad di raddoppiare gli stipendi dei suoi militari hanno sortito l’effetto di accrescere la resistenza dell’esercito. Nessuno dei due protettori del regime di Damasco ha avuto quindi il tempo di dare una mano al proprio alleato. Se si pensa infatti ai tremendi bombardamenti russi su Aleppo e Homs del 2011 e alle milizie iraniane accorse a quel tempo in aiuto del dittatore siriano, appare evidente come oggi nessuno più credeva alla capacità di resistenza di al-Assad e del suo esercito.
Ciò non significa che la sconfitta di Putin e Khamenei abbia semplificato la situazione sul campo. A nord i turchi di Erdogan stanno cercando di consolidare la fascia di frontiera, profonda 38 km, che di fatto amplia il dominio di Ankara sul nord della Siria con il doppio scopo di allontanare dai confini gli arcinemici curdi siriani e in secondo luogo di permettere ai milioni di profughi siriani del 2011 di ritornare alle proprie case (ove ancora esistano), allentando le inevitabili tensioni sociali con la popolazione locale del sud della Turchia.
A sud est assistiamo invece al previsto assalto dell’esercito israeliano per completare la conquista, in dispregio alle risoluzioni dell’Onu, delle alture del Golan che dominano dall’alto Damasco e allo stesso tempo il ricorso a numerosi bombardamenti sui depositi di armi e sui centri di raccolta delle milizie sciite iraniane che ancora stazionano sul suolo siriano. Difficile quindi comprendere come evolverà la situazione geostrategica intorno e all’interno della Siria. Certo, sembra intempestiva e disumana la decisione di diversi paesi europei, fra cui il nostro, di sospendere l’esame delle richieste di asilo dei profughi siriani e addirittura, come nel caso dell’Austria, di avviare le pratiche per la loro espulsione. Una miopia che rischia di costare molto all’Europa e alla sua credibilità.