Addio monti, soffocati dal turismo da selfie

L’aquila di Marco Martalar a Marcesina

Sempre più spesso ci troviamo a fare i conti con parole nuove che entrano a far parte del nostro bagaglio lessicale. L’estate che ci lasciamo alle spalle ci ha regalato il termine “overtourism” che indica una presenza eccessiva di visitatori su un territorio, una pressione tale da comprometterne l’ambiente, il paesaggio e la stessa qualità della vita delle comunità locali. Non è un concetto nuovo: le grandi città d’arte – Roma, Venezia, Firenze – da tempo devono fare i conti con vere e proprie invasioni di turisti, spesso mordi e fuggi.

La novità di quest’anno è che di “overtourism” si è parlato soprattutto per le montagne. Per le nostre montagne.

È stata un’estate che ha reso felici albergatori ed operatori del settore. Ma non si può non vedere, però, che c’è un filo sottile che separa la ricchezza di un territorio dalla sua condanna. Laghi alpini e passi dolomitici, non certo da quest’anno, sono diventati dei veri propri imbuti: tutti in coda, tutti ad aspettare, tutti alla ricerca di un parcheggio (che non c’è perché ogni spazio è già stato occupato). Sentieri che un tempo accoglievano camminatori silenziosi e impegnati a raggiungere una meta. Ora assomigliano ai “listoni” delle città, quei percorsi nelle strade delle vetrine e dei bar per gli aperitivi dove – nelle ore del tardo pomeriggio o nei giorni di vigilia – si cammina uno accanto all’altro, dove ci si sfiora e non ci si incontra, dove la cosa importate non è guardarsi attorno, ma far sapere a tutti: “io c’ero”.

Del resto, il turismo degli ultimi anni ha un volto nuovo: quello del turismo dei selfie. Un turismo veloce, a caccia dello scatto perfetto, dell’inquadratura da condividere subito sui social. La montagna, sempre più, ridotta a fondale. Poco importa se l’escursione dura dieci minuti o se si resta in coda un’ora per trovare parcheggio: ciò che conta è la foto che certifica la presenza, lo scatto da mettere su Instagram o da inviare a tutti gli amici attraverso i contatti di WhatsApp.

Ma cosa resta dietro quell’immagine? Restano le ore spese per poter salire su una funivia. Resta la stanchezza del dover raggiungere la postazione migliore. Restano silenzi spezzati dall’eccessivo vociare e lo spaesamento di chi ha conquistato lo scatto, ma non ha potuto cogliere la bellezza reale di quell’inquadratura. Restano, anche, comunità locali costrette a convivere con un flusso che soffoca la quotidianità, trasformando i paesi in vetrine stagionali. Restano, insomma, le contraddizioni di un modello che sembra dimenticare che la montagna non è infinita.

Non bastano gli slogan sul turismo sostenibile: servono scelte coraggiose, capaci di fissare limiti, anche impopolari. Le navette al posto delle auto private, i ticket di accesso in alcune aree, la promozione delle stagioni meno battute: sono iniziative necessarie, ma non sufficienti.

Il nodo vero è culturale. Bisogna restituire dignità al tempo lento, al rispetto per i luoghi, all’esperienza autentica che non si misura in like. La sfida delle Dolomiti, oggi, è quella di restare sé stesse in un mondo che le vorrebbe continuamente in vetrina.

È necessario un cambio di mentalità anche nel modo in cui “raccontiamo” le montagne. Una narrazione che si limiti semplicemente al belvedere, ma sappia declinare anche le fragilità e il bisogno di comportamenti responsabili. Che faccia capire che la montagna non è solo un set fotografico, ma un ecosistema da proteggere.

Tra i richiami che stanno conquistando gli appassionati degli scatti digitali, negli ultimi anni sono moltiplicate in Trentino le grandi sculture in legno dell’artista Marco Mortalar. Opere visitate da migliaia di persone che – ovviamente – non perdono l’occasione per uno scatto con lo smartphone.

Dal Cervo a Millegrobbe alla Lupa del Lagorai, dall’Aquila di Marcesina all’Haflinger di Strembo, dal Grifone del Tesino (al confine tra Trentino e Veneto) al Drago di Lavarone, dal Radicosauro sulle sponde del lago di Santa Giustina all’Orso del Pradel, a pochi metri dal rifugio Montanara.

Si tratta di sculture imponenti, per lo più realizzate con il legno degli alberi abbattuti dalla tempesta Vaia del 2018. Una particolarità che riesce a declinare in maniera compiuta la grandezza della montagna: la sua storia, la sua bellezza, la sua fragilità. Fotografare queste enormi opere d’arte – persino fare i selfie da inviare agli amici – rappresenta insomma un’opportunità per celebrare sé stessi con un selfie, ma anche per ricordare che la montagna non è solo sfondo per Instagram, ma è forza viva di una natura che può distruggere, ma è poi capace di rinascere.

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