Dopo la pandemia, i danni dell’infodemia

Ai tempi del Covid i social sono stati un formidabile strumento di comunicazione, ma hanno anche generato un eccesso nocivo di informazioni. E non abbiamo imparato la lezione

Cinque anni”. Il titolo in prima pagina dell’ultimo numero di Vita Trentina ha avuto l’effetto di un codice segreto capace di riaprire, quasi d’incanto, un cassettone – pieno di ricordi, paure e angosce – che si era chiuso e che avevamo dimenticato. Solo cinque anni, eppure così lontani nella memoria. Come è facile dimenticare.

Ricordo bene quel febbraio di cinque anni fa, quei giorni a Gerusalemme con i bambini del “Minicoro” di Rovereto per l’inaugurazione della stele che, nel campo degli ulivi, evidenzia il rapporto di amicizia tra la chiesa del Getsemani e la Campana dei caduti. Nel cuore della notte, con un messaggio sul telefonino, le autorità israeliane mi informarono che all’indomani non sarebbe stato possibile raggiungere Gerico. “La città è chiusa”. Chiusa? Ma cosa vuol dire “la città è chiusa”? Il 21 febbraio del 2020, il termine “lockdown” era concettualmente intraducibile. Così come era difficile capire cosa fosse questo strano virus che pensavamo confinato nella lontana Cina. Da Gerico era passato un gruppo di coreani, uno di loro aveva la febbre. Tanto era bastato per far scattare un livello d’emergenza che non si era mai visto. Lo stesso giorno arrivò la notizia del contagio a Codogno, il primo in Europa. Lungo i vicoli della Città Vecchia, avevamo l’impressione che, al nostro passaggio, tutti si spostassero: se prima il pericolo veniva dai cinesi, adesso anche noi italiani eravamo guardati con preoccupazione. All’aeroporto, ci destinarono in un’area riservata, tutta per noi. Durante il volo ci avvisarono – era il 23 febbraio – che all’aeroporto di Bergamo ci sarebbe stato il controllo della febbre.

In quarantotto ore tutto era cambiato: dalla percezione del pericolo (“se gli israeliani, di solito ben informati, sono così preoccupati, vuol dire che sanno cose che noi non sappiamo e c’è davvero da aver paura”), allo choc dei controlli medici all’aeroporto. Da Gerico (vista solo da lontano) a Gerusalemme, da Tel Aviv a Bergamo, avevamo toccato con mano ciò che nessuno aveva mai immaginato e che, in pochi giorni, ci avrebbe stravolto la vita.

Sui social non c’erano ancora i post che assicuravano “andrà tutto bene”. Sarebbero arrivati qualche settimana dopo, un modo per esorcizzare la paura. Ma sappiamo che non è affatto andata bene. Cinque anni fa, a fine febbraio, sui social si moltiplicavano le immagini di un Trentino ospitale, piste piene e code agli impianti di risalita. Una manna dal cielo “benvenuti in Trentino!” – tutti quei turisti che, per la gioia dei nostri operatori, approfittavano di vacanze inattese e non programmate: il 24 febbraio (e sino al primo marzo) in Lombardia erano state chiuse tutte le scuole per evitare i contagi, ma il Trentino li accoglieva a braccia aperte.

I social danno voce soprattutto al presente, colgono l’attimo, non hanno memoria e non si pongono il problema del domani. Sui social prevale la libertà del “qui e adesso”, non la responsabilità delle conseguenze. Anzi, i social consentono anche di cambiare la storia, persino di negare ciò che era evidente. Qualcuno è arrivato a dire che quel tragico corteo di camion militari che a Bergamo, il 18 marzo, portava via le bare dei morti perché non sapevano più dove metterle, era solo una messa in scena per generare paura. Quando la verità viene destrutturata, emergono le fake news (notizie false, ma costruite in modo da essere facilmente credibili) che cambiano le narrazioni e la storia.

La pandemia, in quei mesi, è stata affiancata anche da un’evidente e pericolosa infodemia, ovvero una “circolazione eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi e di cui è difficile risalire alla fonte”. Soprattutto in campo sanitario. Una questione che preoccupa sempre più, tenuto conto che una persona su due (tra i 16 e i 74 anni) cerca online informazioni relative alla salute. I social sono uno strumento formidabile per descrivere la realtà, ma lo sono ancor di più nel sostenere verità inesistenti, nel raccontare bugie manifeste, nello spacciare le opinioni di pochi come la volontà di tutti. Una sorta di dittatura delle minoranze che determinano il “clima d’opinione”, all’interno di una comunità.

Chi mai ha oggi il coraggio di dire “per fortuna che per sconfiggere il Covid è arrivato il vaccino”? Ciò che, con tutta evidenza, è un’ovvietà, sui social rischia di essere semplicemente un catalizzatore di insulti e di odio. Perché passata la paura emerge solo il rancore; perché i morti sono morti e il tempo lenisce il dolore di chi è rimasto e oggi non ha certo voglia di riaprire le ferite; perché – oggettivamente – il lockdown, le lezioni scolastiche a distanza (quel termine orribile: “Dad”), l’isolamento sociale e la solitudine personale hanno poi presentato il conto che, soprattutto per i più giovani, è molto salato.

Cinque anni sono passati. Ma sembrano tanti di più. E non si può certo dire che è andato tutto bene e nemmeno, come ci si augurava, che siamo diventati migliori. Anzi.

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