“Ci portarono in un campo di grano appena tagliato e ci misero contro un muro a secco… poi iniziarono a sparare”
Torra di Taio. Oreste Gentilini, classe 1919, racconta con grande lucidità e con molti particolari l’eccidio di Cefalonia. I ricordi affiorano carichi di drammaticità dalla sua esposizione ricca di nomi, date, luoghi e avvenimenti. Guglielmo Endrizzi, nel suo libro dal titolo En braghe de tela… taliàne. L’odissea di un trentino sopravvissuto all’eccidio di Cefalonia, a cura della Biblioteca Intercomunale Altopiano Paganella Brenta, nomina più volte la presenza del trentino Oreste Gentilini fra i suoi commilitoni.
Gentilini racconta: “Lavoravo già alla Lancia di Bolzano nel 1937, in seguito fui richiamato per il servizio militare a Silandro nella divisione “Acqui”. Prima fummo mandati al Colle della Maddalena vicino a Torino per combattere contro la Francia, ma non combattemmo perché la Germania non ebbe bisogno del nostro aiuto. Allora ci concessero un periodo di riposo nel bergamasco; nel frattempo la divisione Julia si trovò in difficoltà in Grecia, chiusa in una furba manovra a tenaglia dei Greci e ci mandarono a dar man forte. Andammo da Silandro a Foggia e poi con gli aerei ci portarono a Valona in Albania. In due mesi di combattimenti, con l’aiuto della Germania, riuscimmo a sconfiggere i Greci, che prima arretrarono e poi si arresero. Poi ci mandarono a presidiare le isole di Cefalonia, Corfù e Zanche al comando del generale Antonio Gandin. Filò tutto liscio fino all’otto settembre del 1943, quando il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio lesse l’armistizio stipulato a Cassibile con gli anglo americani. A questo punto i tedeschi ci chiesero di consegnare le armi. Gli ufficiali raggrupparono tutte le compagnie e chiesero il parere dei soldati che compatti decisero di non dare le armi ai tedeschi. Una notte i tedeschi arrivarono via mare e cercarono di invadere l’isola, ma la nostra artiglieria aprì il fuoco, ci furono molti morti e facemmo molti prigionieri. Mi misero di guardia ai prigionieri, mentre i tedeschi iniziarono a bombardare con gli stukas. Riuscimmo ad avere una certa confidenza con i prigionieri, che erano tutti anziani e stanchi della guerra. La battaglia durò sette giorni e infine i tedeschi riuscirono ad occupare l’isola di Cefalonia. Dovemmo consegnare le armi ai prigionieri, mentre arrivò una colonna di prigionieri italiani. Ci portarono in un campo di grano appena tagliato e ci misero contro un muro a secco ed iniziarono a sparare all’impazzata. Io caddi sotto una montagna di cadaveri. Non riuscivo a muovermi, chiesero se fra di noi c’erano triestini e trentini. Ero immobile, ma riuscivo a gridare, mi tirarono fuori ma non riuscivo a stare in piedi, mi portarono all’ospedale. Dopo tre giorni passò lo shock e riuscii ad alzarmi in piedi. Mi consigliarono di andar via in fretta e di unirmi ai prigionieri. Fummo trasferiti a Giannina e lì dovemmo giurare fedeltà a Hitler. Per qualche tempo ebbi il compito di aiutare i tedeschi a fare la guardia contro le incursioni dei partigiani dell’Epiro. Una notte i partigiani presero la palazzina dove eravamo alloggiati, uccisero i tedeschi e noi italiani ci portarono in montagna, presero i nostri vestiti e ci diedero i loro stracci. Dovemmo fare gli stallieri e accudire i cavalli, fra molti stenti e molta fame. Dopo due anni con una nave fummo portati in patria dagli alleati, a Brindisi. Fui colpito dalla febbre della malaria e portato in ospedale. Dopo alcuni giorni salii su treni stipati all’inverosimile e arrivai a Bologna. Li mi incamminai a piedi, perché non c’erano più treni in movimento. Trovai la combinazione di un pullman che andava al Brennero a prendere gli italiani reduci dai lager tedeschi e arrivai fino a San Michele all’Adige. Continuai a lavorare alla Lancia di Bolzano e nel 1961 sposai Emma Chini da cui ebbi tre figli: Marco, Guido e Rita”.
Gentilini è vedovo da nove anni e vive da solo, accudito dai figli.