A nessun uomo di buon senso verrebbe mai in mente di rendere pubbliche le foto intime del proprio partner: pubblicarle su un giornale, attaccarle sulla bacheca del paese, o sui muri delle case perché tutti le possano vedere. E commentare. E a nessuna persona di buon senso verrebbe in mente di diffondere foto di donne (per lo più conosciute) per fomentare il gusto del commento anonimo, quasi sempre volgare, all’insaputa della persona suo malgrado e inconsapevolmente coinvolta.
Non è più “voyeurismo”, ma vera e propria violenza. Un “sessismo digitale” che pone – come per le vicende emerse in questi giorni – interrogativi stringenti non tanto (non solo) sul ruolo di internet, ma sull’assenza di una cultura del rispetto che, non solo in rete, sembra non conoscere più limiti e non sembra più avere antidoti.
C’è chi cerca di minimizzare, c’è chi si ostina a dire che “sono solo scherzi”, c’è chi rivendica una sempre più esaltata “libertà di espressione”.
Ma dietro fenomeni come la piattaforma “Phica.eu” o il gruppo Facebook “Mia moglie” non c’è ironia né gioco. C’è la fotografia di un mondo in cui la donna rimane ancora terreno di conquista, di possesso, di spettacolo. “Gli stessi ingredienti – l’esposizione delle donne come oggetti, la mercificazione dei loro corpi, la rivendicazione della loro “proprietà” – che “abbiamo imparato essere costitutivi di ogni forma di violenza sulle donne, dallo stupro fino al femminicidio”, come sottolinea Viviana Daloiso su “Avvenire”.
Il sito internet era un forum nato quasi vent’anni fa, diventato con il tempo un cimitero di dignità: foto rubate, donne comuni esposte a commenti degradanti, leader politiche trasformate in oggetti di scherno sessuale. Non un luogo di trasgressione, ma di violenza travestita da libertà.
La pagina “Mia moglie”, su Facebook, ha mostrato un’altra faccia della stessa medaglia: uomini che condividono immagini intime delle proprie compagne, quasi sempre inconsapevoli, come se la relazione sentimentale concedesse il diritto di esibirle. Un tradimento non solo affettivo, ma anche sociale: esporre la figura della propria moglie alla gogna collettiva.
Due storie diverse, un unico meccanismo: l’oggettificazione della figura femminile, la mercificazione della donna. Il digitale non inventa nulla, amplifica ciò che un modo di intendere la figura femminile ha seminato per secoli. La donna ridotta a corpo, a proprietà, a trofeo. E gli uomini che si fanno branco, convinti che l’umiliazione altrui rafforzi la loro identità.
La chiusura del sito e del gruppo Facebook è un atto dovuto, ma non basta. Perché nel frattempo gli stessi contenuti migrano altrove: Telegram, WhatsApp, forum paralleli. Ciò che si chiude da una parte, trova spazio in altri ambiti dell’infinito mondo della rete. Ma il problema vero non è internet, è l’idea che certe pratiche siano “normali”, “virili”, “divertenti”. L’umiliazione della figura femminile, la donna a cui viene tolta ogni dignità.
Le leggi servono, ma senza un cambiamento culturale resteranno argini fragili. Finché continueremo a considerare la donna come un oggetto da mostrare o da possedere, avremo sempre qualche nuovo sito o qualche nuova pagina Facebook. Con un’altra veste, su un’altra piattaforma, ma con la stessa radice che può contare sulla sostanziale impunità di chi agisce – con uno pseudonimo o comunque in forma anonima – sui social.
Quasi che lo spazio della rete sia da intendere come un campo aperto dove si può dare il peggio di sé stessi, dove ogni inibizione viene cancellata e dove ognuno può vomitare ciò che vuole e può usare le immagini della donna (persino quelle della propria moglie o della propria compagna) come trofeo o elemento di vanto.
Ma non bastavano i siti e i gruppi social che umiliano le donne trasformandole in oggetti di consumo. Ora la violenza digitale fa un salto tecnologico. Secondo alcune denunce, Meta — la società di Facebook, Instagram e WhatsApp — ha sperimentato chatbot di intelligenza artificiale che imitano – spacciandosi per loro, ovviamente senza il loro consenso – celebrità come Taylor Swift o Scarlett Johansson. Anche in questo caso, si tratta di donne con le quali interagire: capaci di scambi ammiccanti, provocatori, persino a sfondo sessuale.
Il rischio è chiaro: se prima il problema era la condivisione di foto rubate o intime senza permesso, adesso si passa alla replica artificiale delle identità, con la possibilità di creare interazioni fasulle che nessuna delle dirette interessate ha mai autorizzato. È la stessa logica di fondo: il corpo e l’immagine delle donne, reali o digitali, vengono manipolati e messi a disposizione del pubblico della rete.
Rispetto ai siti e alle piattaforme di cui si discute in questi giorni, cambia lo strumento, non la sostanza. Nel primo caso erano forum e social a diffondere foto non autorizzate; oggi è l’intelligenza artificiale a fabbricare versioni virtuali di persone reali. In entrambi i casi, a scapito della dignità della donna.