Dove sta andando Benjamin (detto Bibi) Netanyahu? Il più longevo primo ministro israeliano dà l’impressione, al di là delle dure parole che usa, di essersi addentrato in un vicolo cieco, senza via d’uscita. A parte il disegno del Grande Israele, ispirato dalla destra più radicale e fondamentalista del suo governo, gli slogan “no alla fine della guerra a Gaza” e “no ad uno stato palestinese” non sono più davvero credibili. Dove deportare gli oltre due milioni di gazawi una volta conquistata la Striscia? Quale potrà essere dopo tutte queste provocazioni la reazione dei paesi arabi confinanti che fino ad oggi si sono tenuti a debita distanza dal conflitto? E che dire del clamoroso isolamento internazionale in cui è piombato il paese, così bene illustrato dall’uscita in massa dei delegati all’Assemblea dell’Onu non appena Bibi ha preso la parola? E che dire della resistenza ancora imbattuta di Hamas a Gaza?
All’avvicinarsi del secondo anniversario, il 7 ottobre, della criminale azione terroristica di Hamas, il bilancio complessivo di due anni di feroci ritorsioni ebraiche sulla popolazione civile di Gaza sembra più simile ad una sconfitta che ad una vittoria. In effetti Netanyahu sembra avere sofferto di una distorsione ottica. Sul piano militare Israele ha dimostrato di non temere concorrenza nella regione mediorientale. Ha cominciato con il decapitare il vertice politico-militare degli Hezbollah del Libano che dal nord di Israele avevano cominciato a bombardare i villaggi sul confine. In Siria, oltre ad essere riusciti a facilitare la rivolta contro il dittatore filoiraniano Bashar al-Assad, gli israeliani hanno eliminato le milizie e i depositi di armi organizzati da Teheran.
Allo stesso modo Tel Aviv è riuscita a bloccare il governo sciita dell’Iraq dall’intervenire in sostegno dei palestinesi. Infine, con l’aiuto e la complicità di Donald Trump ha quasi azzerato con una serie di bombardamenti mirati i siti nucleari dell’Iran. Quest’ultimo ne è uscito duramente ridimensionato nella sua influenza sulla regione e sulle milizie antisraeliane. Anche con gli Houthi dello Yemen l’aviazione di Tel Aviv ha compiuto micidiali bombardamenti sui siti da cui partivano i rari missili forniti da Teheran. Insomma, in quanto a potenza militare Israele non teme confronti in Medioriente.
Ma Hamas è tutta un’altra storia. È un movimento realmente terrorista che in qualche modo assomiglia all’Isis. Cattura ostaggi, massacra civili inermi, ricatta ed utilizza la propria popolazione palestinese per coprirsi le spalle e ottenere la criminalizzazione del nemico. È il trappolone in cui è caduto Netanyahu due anni fa. In qualche modo uno degli unici passaggi condivisibile nel suo discorso all’Onu è stato il paragone fra il 7 ottobre 2023 e l’11 settembre del 2001 con l’abbattimento delle due Torri. L’allora presidente George W. Bush aveva infatti risposto all’atto di terrorismo di Al Qaeda con ben due guerre, una contro l’Afghanistan e l’altra ancora più assurda contro l’Iraq di Saddam Hussein. Dagli irakeni sconfitti nacque come ritorsione un altro terrorismo feroce, come è stato appunto l’Isis.
Non è quindi inverosimile aspettarsi che Hamas possa sopravvivere e trasformarsi in una forza eversiva in tutta la regione e nell’intero mondo occidentale. È rimasto davvero poco tempo per uscire da questo vicolo cieco e le proposte di Donald Trump costituiscono un estremo tentativo, invero piuttosto barocco e complicato (ben 20 punti da mettere in pratica), per riprendere dalla coda una situazione ormai fuori controllo.
Nella conferenza stampa, seguita al lunghissimo incontro alla Casa Bianca con Netanyahu, ha finito per prevalere il tono ottimistico del Presidente americano che con le sue iperboli sulla bontà del piano si è detto addirittura pronto a presiedere personalmente il Comitato internazionale che ha pomposamente chiamato “board for peace”. Esso dovrà nominare un governo di esperti palestinesi (ma non membri dell’Autorità palestinese -PLO) e sovrintendere al flusso dei finanziamenti per la ricostruzione di Gaza e al rispetto della tregua e del coinvolgimento di tutti i paesi della regione, interessati alla stabilità e alla sicurezza.
Naturalmente Hamas dovrà rilasciare entro 72 ore tutti gli ostaggi ancora vivi (una ventina) e i corpi di quelli morti. Infine, il gruppo terrorista dovrà essere disarmato e non avere più alcun ruolo politico. Per ottenere questo incredibile risultato, Trump ha trasferito la responsabilità di convincere Hamas all’emiro del Qatar che ha sostenuto finanziariamente Hamas (con l’accordo indiretto di Netanyahu) e ne ha ospitato i vertici politici.
Per rendere credibile questa richiesta Trump ha chiesto a Bibi di scusarsi in diretta telefonica con l’emiro per l’assurdo bombardamento su Doha, la capitale, allo scopo di eliminare i vertici di Hamas. Cosa fra il resto non riuscita per l’opposizione dell’intelligence israeliana a colpire in casa di un possibile mediatore ed alleato. Tutto, quindi, passa nelle mani di Hamas che, se non accetterà, dovrà assistere alla distruzione completa di Gaza, anche con la copertura americana.
Va inoltre sottolineato che nel protocollo di intesa lo “stato” Palestina è solamente previsto come “percorso verso uno stato palestinese”, ma non come realtà esistente e riconosciuta da più di mezzo mondo. Il tutto per non mettere in imbarazzo Bibi Netanyahu, che ha tuttavia compreso come questo piano sia per lui l’unico modo per uscire dal vicolo cieco. È lecito dubitare che l’operazione riesca, ma le sorprese sulla via della pace sono sempre possibili e sperabili.