L’articolo pubblicato l’8 giugno in questa rubrica, dedicato alle «Considerazioni finali» del Governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, si chiudeva con un auspicio: ripensare il modello di sviluppo. Un’esigenza condivisa, pur da prospettive diverse, anche dal prof. Stefano Zamagni, recentemente intervenuto al Vigilianum per commentare le sollecitazioni degli ultimi Pontefici volte a «ridare un’anima all’economia».
Secondo l’ex presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è necessario un cambio di paradigma per superare «l’obsoleta dicotomia tra sfera dell’economico e sfera del sociale [che identifica] l’economia con il luogo della produzione della ricchezza e il sociale con il luogo della solidarietà e della compassione. [Infatti] si può fare impresa anche se si perseguono fini di utilità sociale». Sono parole con cui lo stesso Zamagni, il 29 giugno 2009, partecipava alla presentazione nella sala stampa vaticana dell’Enciclica di papa Benedetto XVI Caritas in veritate, che il professore contribuì a redigere e che resta un testo centrale per comprendere il magistero della Chiesa riguardo al modello di sviluppo. Possono «essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa – si legge nell’enciclica -. Inoltre, occorre che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. [Molte] iniziative [economiche] religiose e laicali dimostrano che ciò è concretamente possibile». Questo nuovo paradigma si fonda su tre attori, non solo due: mercato, Stato e società civile, la più idonea a «un’economia della gratuità e della fraternità», che va integrata però anche negli altri due ambiti, così da diffondere «la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune». Realtà come il volontariato e la cooperazione traspaiono da questa visione, ma anche le imprese orientate al profitto possono parteciparvi, pur con modalità imprecisate – compito che, del resto, non spetta alla Chiesa.
Alcune indicazioni pratiche su come coniugare profitto e responsabilità sociale provengono dalla letteratura economica. Un esempio emblematico è l’articolo «Creare valore condiviso», pubblicato da Michael Porter e Mark Kramer su Harvard Business Review nel 2011, due anni dopo la Caritas in veritate. Gli autori propongono tre linee d’azione concrete: a) ripensare prodotti e mercati, per soddisfare bisogni sociali ancora inevasi, in particolare tra le fasce più svantaggiate; b) ridefinire la produttività lungo la filiera, ottimizzando l’uso delle risorse, la logistica, le forniture e la gestione del personale, anche grazie a nuove tecnologie che, pur costose, si ripagano con l’aumento dell’efficienza; c) facilitare lo sviluppo di cluster locali, puntando sulla collaborazione con il territorio e con gli stakeholder come leva strategica.
Oggi, la crescente diffusione di strumenti come il bilancio di sostenibilità e le certificazioni ESG (si veda Vita Trentina, 23 febbraio) conferma la validità di quelle intuizioni, sulle quali occorre tuttavia continuamente studiare e investire, per evitare derive puramente pubblicitarie, e favorire l’effettiva maturazione di alternative di sviluppo sostenibili, necessarie e possibili.