C’è un termine, “scrolling”, che indica il modo in cui sempre più ci mettiamo a guardare il mondo, ad osservare ciò che ci circonda, ad informarci, a farci un’opinione. “Scrolling” (parola inglese il cui significato è facilmente comprensibile anche in italiano) non è altro che lo scorrere delle notizie, delle foto, dei messaggi, dei post sul nostro telefonino. Ormai è una postura che identifica l’utente digitale: la testa inclinata in avanti, il collo curvato verso il basso, il braccio sollevato sino ad altezza del petto, lo smartphone in mano e il pollice appoggiato sullo schermo (schermi ormai tutti touchscreen, che funzionano cioè con il semplice tatto dei polpastrelli) per scorrere la sequenza infinita dei post sui social: si rallenta quando qualcosa ci interessa, ci si ferma quando si vuole dare un’occhiata, poi si riprende e si accelera quando sulla “timeline” appare qualcosa che non ci sembra degno di attenzione.
Se la vita, come cantava Renzo Arbore, negli anni Ottanta era “tutto un quiz”, oggi è tutto uno scrolling, un guardare velocemente e passivamente ciò che altri ci vogliono far vedere. Sono gli algoritmi di Musk (su Twitter diventato “X”), quelli di Zuckerberg (su Facebook e su Instagram) e quelli dei cinesi (su TikTok) a decidere cosa ci può interessare, ciò che ci può emozionare e ciò che ci fa indignare. Poco importa se ciò che si racconta è vero o falso, se genera odio o se divide le comunità. In nome della libertà di espressione (“gli utenti producono i contenuti, gli utenti li giudicano, gli utenti li consumano e li rilanciano. Fanno tutto loro, non vanno censurati”) tutto diventa possibile: soprattutto se ciò porta ad un aumento dei profitti.
A questo sono finalizzati gli algoritmi, anche se non ce ne accorgiamo, soprattutto se ne siamo inconsapevoli. Perché l’intelligenza artificiale, che tanto ci inquieta, è già nelle nostre case, è già nella nostra vita. E scrollando velocemente i post sui social network, ci è sempre più difficile distinguere ciò che è vero da ciò che, invece, è solo propaganda e disinformazione. Elon Musk da quando ha comperato Twitter ha già dato dimostrazione di come si può indirizzare la sensibilità delle persone. In altre parole, di come si può condizionare l’opinione pubblica. “L’uccellino è tornato libero”, aveva annunciato l’uomo più ricco del mondo dopo aver speso una quarantina di miliardi di dollari per comprarsi ciò che poi ha chiamato “X”. In nemmeno due anni, dicono gli osservatori indipendenti, il social nato per i cinguettii di non più di 156 battute, è ora diventato la più grande fabbrica di fake news.
La stessa cosa – ben più di quanto già accade oggi può succedere su Facebook e Instagram. Il gruppo Meta (quello di Mark Zuckerberg, che a inizio gennaio ha inserito John Elkann nel Cda della società per “portare una prospettiva internazionale”) ha deciso di sospendere l’attività di “fact checking” (controllo dei fatti) da parte di un gruppo esterno alla società che doveva valutare la veridicità dei contenuti pubblicati sui social network del gruppo, segnalando eventuali anomalie.
Insomma, niente più controlli, ognuno pubblichi ciò che vuole. Una scelta, quella di Zuckerberg, che è stata collegata alla nuova stagione politica che si sta aprendo negli Stati Uniti con la presidenza Trump. “Adesso che alla Casa Bianca rientra un presidente appassionato di ‘fatti alternativi’ e del tutto a suo agio in uno scoordinato profluvio di assurdità e bugie via social”, osserva amaro Pietro Saccò su Avvenire, “tutta questa pantomima del fact checking non serve più”. È dunque arrivato “il momento giusto per lasciare i social network?”, si chiede provocatoriamente Avvenire. Per Saccò, “pensare che il giornalismo di qualità e le notizie potessero farne parte è stata un’illusione a cui hanno creduto in troppi. Altro che fact checking, l’errore di partenza è stato pensare di potersi informare mentre ci si annoia ‘scrollando’ tra i post”.
Diversa la lettura di Gigio Rancilio (responsabile dei social del quotidiano) secondo il quale i social sono diventati la nuova tv: vanno usati, ma non abitati. “Ho scritto volutamente usiamo e non abitiamo (per anni ci siamo ripetuti che i social vadano abitati), perché credo che si debba tornare a usarli come facciamo con un elettrodomestico. Cioè, solo per il tempo e per ciò che ci serve. Abitare i social, infatti, significa uniformarsi alle loro leggi, parlare il loro linguaggio, sottostare ai loro diktat, con tutto ciò che ne consegue. Usarli invece sta a significare che siamo noi a decidere cosa fare e quando farlo. Non è un salto da poco”.
Dibattito aperto. Anche perché i social, piaccia o non piaccia, oggi sono uno strumento usato da oltre la metà della popolazione mondiale: per condividere qualcosa (anche se nove utenti su dieci si limitano a “dare un’occhiata”) e per informarsi. Ciò che sarebbe importante è riuscire ad emanciparsi dagli algoritmi e diventare, ciascuno di noi, protagonista di una lettura più attenta dove la ricerca consapevole prende il posto del più comodo scrolling.