È una Statua della Libertà capovolta quella che accoglie László Tóth, stimato architetto ebreo del Bauhaus prima dell’ascesa del nazismo, e, in seguito la moglie Erzsébet e la nipote Zsófia, emigrando nel 1947 in America dall’Ungheria. Segnati dalle sofferenze patite nei campi di concentramento di Buchenwald e Dachau, vogliono ricostruirsi una nuova vita, ma sperimenteranno l’ancor più brutale degenerazione del “sogno americano” che dà a tutti un’opportunità e altrettanto facilmente umilia e tradisce le promesse.
Vincitore del Leone d’Argento Premio speciale per la regia all’ultima Mostra di Venezia, di tre Golden Globes e quattro premi Bafta, girato nell’ormai raro formato dei 70mm e realizzato a basso costo in Europa, “The Brutalist”, diretto da Brady Corbet, scritto con la moglie Mona Fastvold, è candidato a 10 Premi Oscar, tra cui miglior film, regia e attore protagonista. Arrivata nelle sale dopo dieci anni di lavoro, la pellicola è un’opera monumentale e in tre ore e 35 minuti racconta l’odissea trentennale di László Tóth, personaggio di fantasia interpretato dall’attore americano Adrien Brody, che ricorda “Il pianista”, per il quale vinse il premio Oscar nel 2003, ben calato nei panni di un genio tormentato che aspira al riscatto. László fa uso di eroina e vive in povertà fino a quando il miliardario Harrison Lee Van Buren gli commissiona un monumentale centro culturale intitolato alla madre e Tóth lo progetta con lo stile brutalista, caratterizzato dalla struttura essenziale e dall’uso del cemento a vista, incontrando molti ostacoli.
Il giovane regista mette sul ring della vita due uomini, senza indagare a fondo i personaggi e lasciando la sensazione di incompiuto: da un lato il creativo che non cede a compromessi, portatore di una visione e dunque di libertà espressiva, dall’altro il generoso mecenate attratto dall’arte pura che si rivela squallido capitalista moralmente corrotto, simbolo del potere del “dio denaro” che, senza alcun scrupolo e rispetto, “viola” non solo il contratto con l’architetto ma anche la sua dignità. Nel 1980, alla 1ª Mostra internazionale di architettura di Venezia, viene dedicata una retrospettiva alle opere di Tóth, e la nipote Zsófia svela che l’Istituto Van Buren era stato ispirato dai campi di sterminio e realizzato per esorcizzare il trauma dell’Olocausto e la separazione da Erzsébet. Per László “conta la destinazione, non il viaggio”. Può stare in questa frase il senso di un film di durata eccessiva – ouverture, due lunghe parti con intervallo, epilogo frettoloso -, con un avvertimento sottotraccia: la vita ridotta all’essenziale per andare al “nocciolo duro della bellezza” può sì ispirare l’ingegno umano che sa creare opere solide che trascendono il tempo e lo spazio, ma sul crinale della perdizione, lottando strenuamente per non lasciare che lo spirito e il libero pensiero siano intaccati dalla brutalità della vita stessa.