L’“ua Pavana” è un antico vitigno il cui nome, storpiatura di “uva padovana”, ne rivela la provenienza veneta. Così la descrive Agostino Perini nel 1840 sul Giornale Agrario: “Uva nera simile alla schiava, con buccia più dura, con acini quasi ovali, più rari e meno succosi. Produce abbondante raccolto, dà un vino molle alquanto aspro, ma di poca forza, che passato l’anno migliora di molto”. Un vitigno diffuso in Valsugana e pregiato, insieme a quello della “cinesa” secondo quanto scrive Angelico Prati nel 1923 ne I valsuganotti.
Ma padre Morizzo nei suoi manoscritti attesta la presenza del vin pavan già nel 1497. Oggi il paesaggio agricolo della valle non è più disegnato dai caratteristici filari di vite posti a perimetro di un campo o di un prato e i terrazzamenti solivi della montagna di mezzo un tempo coltivati sono stati ricolonizzati dal bosco ed appena riconoscibili. Tuttavia, se si percorrono nel tardo autunno i labirinti intricati delle vecchie mulattiere, i segni lasciati in quelle terre aspre un tempo conquistate alla coltivazione, emergono timidamente: nuovi ricacci da un ceppo di vite sepolto sotto il crollo di una costruzione rurale, la vasca per il verderame che ne conserva ancora le tracce colorate, muretti incerti di pietra a secco. Ma nella piana qualche raro e vecchio ceppo di Pavana salvato dall’estirpazione, ancora resiste e si riconosce per la “zoca” grossa e contorta, piegata dalle ripetute potature. Chi si prende ancora cura dei vecchi ceppi ereditati, lo fa per passione e con un sentimento di devozione alla tradizione familiare, ammostando per uso domestico le uve vendemmiate tardivamente.
Per S. Martino, a novembre, il “brascà” del futuro “vin pavan” non ha ancora ultimato la sua fermentazione e, come recitano i famosi versi, “dal ribollir dei tini, va l’aspro odor dei vini, l’animo a rallegrar”.