La donna rom che bussa ai nostri pregiudizi

La mia mamma quando suona alla porta della nostra casa lo fa con due squilli leggeri, Giovanni è quasi musicale, il suono di Maddalena annuncia felicità e Thuy preme sul campanello con quella armonia e leggerezza che solo la gente del Vietnam conosce.

Lucia invece quando suona alla mia porta sembra graffiare con le unghie l’aria, come se la rabbia fosse il suo segno di riconoscimento, quasi implorasse attenzione.

Lucia ha quasi quarant’anni. È leggera e incurvata come una canna percossa dalla tempesta. Ha cinque figli, “venuti al mondo come conigli” tanto per citare De Gregori, un marito che c’è, non c’è, sparisce e ritorna, porta problemi invece che serenità.

Lucia è una donna rom. Ha una casa popolare che si è conquistata con volontà e quasi con rabbia, dopo illusioni, dinieghi, “ci/penseremo/quando/ce/ne/è/una/abbastanza/grande”, promesse e inganni, ma di certo non l’ha rubata ad un italiano. Per dire la verità, spesso, ad un primo impatto, dà fastidio anche a me e mentre scendo le scale mi verrebbe anche voglia di non aprirle la porta e di non darle i 20 euro che ogni settimana le ho promesso. Ma fra uno scalino e l’altro, mi si srotola sempre davanti agli occhi tutta la sua vita: la sua nascita al campo in mezzo al freddo, la bombola del gas che finisce troppo in fretta e il freddo che ritorna, la sua adolescenza poco vissuta nei giochi, la derisione dei compagni di classe che la “aiutano” poco a frequentare la scuola, i figli che arrivano troppo presto. Sempre distante dal mondo dei cosiddetti normali, sempre allontanata, emarginata, derisa. Ha provato anche a studiare, l’ho anche aiutata a fare i compiti quando era alle medie. Ha cercato anche un lavoro, ma chi glielo poteva dare di fronte all’etichetta di rom incollata alla pelle, come una stella di David cucita sulla giacca. Niente da fare con lo studio, niente da fare con il lavoro, niente matrimonio felice nel freddo della roulotte. Niente presente e niente futuro, paralizzata da un passato che dipinge i rom come tutti ladri, tutti diversi, tutti fannulloni, tutti incapaci. Ne conosco tante come Lucia, fastidiose, insistenti, magari fragili e in balia di una vita troppo difficile, ma condannate a non avere un futuro, perché abbiamo coltivato spesso, nei loro confronti, pregiudizi invece che solidarietà, fastidio invece che sorriso, rabbia invece che accoglienza, pressapochismo invece che progettualità.

Lo ammetto: con Lucia il bilancio finale è talvolta sconsolante. Un’inchiesta fatta negli USA sul tema dell’immigrazione riporta dei risultati curiosi. Come sempre, in un’inchiesta s’inseriscono domande trabocchetto, “tricky questions”. Alla domanda: “Chi non vorreste come vicino di casa?”, si sono inventati, fra le risposte possibili, dei nomi di popoli inesistenti. Nelle risposte, più del 70% delle persone intervistate, non gradivano vicini appartenenti a quei popoli. Perché lo sconosciuto ci fa ancora, istintivamente, paura. Allora la conoscenza, l’accoglienza, la mescolanza delle idee e delle culture, la progettualità nella condivisione non potrà che farci che bene e da lì verranno anche le risposte necessarie. Altrimenti sarà il fallimento della nostra Costituzione repubblicana e l’inizio di una nuova barbarie.

Non ho giurato sul Vangelo e non porto il rosario in tasca, ma credo che quello che mi si chiede di fare, per quello che ho capito del Vangelo, è di dare fiducia, di investire in fratellanza anche con spirito critico, di trovare strumenti e progettualità impegnative e propositive, che nulla hanno a che fare con la schedatura, il respingimento, l’allontanamento del problema. Insomma riscoprire una nuova capacità di accoglienza che, in realtà, si declina con parole vecchie: gratuità, benevolenza, condivisione e certamente giustizia. Non dimenticandoci mai di stare sempre, evangelicamente, dalla parte di chi fa più fatica.

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