La scuola non è un gioco di parole

Gamba qua gamba là, mi presento son la A.

Io di braccia ne ho tre, vi saluto son la E.

Sempre dritta, notte e dì, eccomi son la I.

Io sbadiglio e niente fo’, oh che sonno, son la O.

Io m’arrendo, braccia in su, e confesso son la U.”

Probabilmente nei prossimi giorni, all’inizio di questo anno scolastico, qualche maestra intraprendente e allegra insegnerà ai suoi piccoli e nuovi alunni una filastrocca sulle vocali. La musica e il testo magari non saranno un granché, ma una filastrocca dà un sapore di festa e di allegria e dilaterà lo spazio della scuola, facendola diventare un luogo dove si sta volentieri, un luogo di allegra convivenza e socializzazione. Un luogo dove ci si sente meno soli, visto che la solitudine sembra diventare un ingrediente sempre più  presente, ad ogni età, nella nostra  società che vive a strappi e  ha abbandonato il passo lento e costruttivo del camminare insieme.

La Costituzione, all’art. 34, dichiara, con una semplicità disarmante, che “la scuola è aperta a tutti e che l'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita e che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Mi piace immaginare e sperare, anche in questo nuovo settembre di riapertura delle scuole, che tutti quelli che si occupano di scuola (per primi i politici, ma con pari responsabilità chi lavora nella scuola, le famiglie e gli stessi alunni) sappiano reinventare e declinare con efficacia e senso di responsabilità, qualche vocale insostituibile e necessaria per dare alla scuola il suo vero ruolo.

La “A” per una scuola luogo di accoglienza, dove ciascuno si senta accettato come persona insostituibile e unica.

La “E” per una scuola luogo di equità, dove le condizioni di partenza e di arrivo siano uguali per tutti, dove si deve aver diritto a un corpo docente stabile e di qualità, dove anche le strutture siano curate allo stesso modo per qualità degli spazi, dove non solo alcuni possano andare all’estero ad approfondire l’uso di una lingua, mentre altri non lo possono fare, per mancanze di risorse personali e  di attenzione delle istituzioni.

La “I” per una scuola luogo di inclusione,  dove  a tutti deve essere chiaro che “i compagni di viaggio non si scelgono” e che sostenere e amare i più deboli  e  farli vivere da uguali in mezzo agli altri è un impegno indiscutibile.

La “O” per una scuola organizzata, dove l’efficienza e la qualità, che non sono brutte parole, non possono essere relegate a slogan o a dichiarazione di intenti, ma devo essere gestiti, ad ogni livello, sulla base di una valutazione responsabile di tutte le componenti.

La “U” per una scuola utile, che renda possibile far credere a tutti in un futuro felice, che non sia mai un luogo di “parcheggio” in attesa di un domani che non si sa se verrà, ma che faccia crescere competenze e abilità reali, come garanzia per una cultura spendibile.

Attorno a quest’ultima vocale girano anche consonanti e mi piace pensare ad alcune parole importanti che spero segnino il cammino della scuola: la “P” di Pace , la “Q” di Qualità, la “R” di Responsabilità. Altre mi piacciono meno come la “V” di vaccini, problema di cui la scuola sembra investita come se la questione, del tutto legittima e doverosa di tutela della salute, dovesse riguardare un aspetto minacciosamente burocratico e non un problema di educazione della collettività.

Sommessamente Papa Francesco, con un gesto ancora una volta profetico e denso di significato nella sua semplicità, si è recato recentemente a pregare sulle tombe di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani, a ricordare ai credenti la necessità della profezia e agli altri il bisogno di orizzonti di alto profilo nel lavoro, nella giustizia sociale e nella scuola. Altre istituzioni, viceversa, celebreranno don Milani con l’ennesimo convegno, ridondante di parole e di slogan e sul quale, posso sinceramente pensare,  anche lui storcerà il naso. Perché le parole hanno un valore se praticate e vissute con passione e nella verità e perché, come lui stesso scriveva, “con la parola alla gente non si fa nulla; sul piano divino ci vuole la grazia e sul piano umano ci vuole l'esempio”.

Perché la scuola non è un gioco di parole, ma un luogo di responsabilità.  

vitaTrentina

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