Come un canto a lungo covato

Se è vero che sempre la poesia origina da una ferita, questa di Lauretano non sanguina più

C’è nella poesia di Gianfranco Lauretano qualcosa di intimo, riservato, eppure di tutti e per tutti, rivolto ad un Tu capace di accogliere, ma anche ad un Tu distratto richiamato e accolto dentro una parola chiara e semplicemente umana. Un dialogare cuore a cuore, lontano dall’esibizione, dal cerebralismo e dalla sciatteria di tanti versi, anche suggestivi di prim’acchito, esibiti oggi nei readings e nelle performances modaiole. Fanno pensare a una musica da camera questi suoi nuovi testi, pacati e carichi di pulsante sentire, ed escono come un canto a lungo covato e custodito che arriva al nostro convivio come frutto maturo, sprigionando svariati umori da una polpa morbida al punto giusto, capace di coinvolgerci in una potente sinestesia. Perché questa poesia intende stare, come evidenzia Giancarlo Pontiggia in terza di copertina “per la sua intransigenza, la sua severa necessità, la sua spoglia determinazione al centro della nostra vita, nel punto in cui qualcosa di essenziale e di decisivo si va annunciando”.

E se è vero che sempre la poesia origina da una ferita, questa di Lauretano non sanguina più, i bordi lacerati sono stati medicati dal balsamo del tempo, della comprensione, dell’accettazione, producendo questa prova della maturità (dei cinquant’anni) che è un vademecum per la vita, un breviario di umanità. Con un po’ di audacia, oserei dire di fede adulta. Come lui stesso ci racconta in una nota a fine libro “In tutti i miei libri c’è il desiderio del venire al mondo, dell’alba, il miracolo che mi colpisce sempre – e non lo faccio apposta, non lo scelgo. E poi il fiorire dello stesso inizio, la trepidazione della vigilia e della promessa in ogni cosa…”

Lauretano è uomo della tessitura, non dell’impazienza, del fuoco lento piuttosto che del fulmine. Ed è anche squisitamente, profondamente poeta provinciale perché, come sosteneva Derek Walcott, ogni vero poeta non può che essere tale. La sua poesia si fa così più concreta e puntuale, nella lingua il suono aggancia il senso  e il senso il suono, attivando l’intera esperienza di uomo: percezioni sensibilità ragione sogno corpo immaginazione. Basta leggere alcuni versi da “L’epoca”: La pineta di Cervia non è più/la foresta profumata e misteriosa/che Dante mette in cima al purgatorio…//è un luogo dove anche noi/abbiamo svezzato figli/via dalla calura meridiana della spiaggia…//Un grande amico era con noi, tra passeggini e gelati/e ora ha cambiato ubicazione.

Sono un inchino fatto a un luogo della sua Romagna, che diventa luogo dell’anima in nome della sacertà tutta del creato e dunque di una terra che diventa anche la nostra. Un gesto poetico, il suo, come possibilità fraterna capace di accompagnare, illuminare, cantare, mettere a fuoco la vita e racconta di come la scintilla tra realtà e parole, il cortocircuito tra il verso e le particolari circostanze della vita possono scattare in qualsiasi momento. Basta leggere da “Città”: Vagano due vecchi nella casa piccola/trascinano i piedi e gli ultimi anni/preparano senza fretta la cena/versano il brodo con strana attenzione/sbucciano meticolosamente la mela…dove i verbi d’inizio dei quattro versi in sequenza – vagano trascinano preparano sbucciano – mostrano nella lentezza dei gesti una storia che palpita, dove il battito è insieme ritmo e aritmia, tanto più se i due vecchi sono persone care. E allora, insieme al poeta, accompagnati dentro la nostra vita, capita di restare come sospesi, impigliati in un ricordo, una dolorosa epifania, ma anche una prefigurazione che persuade/costringe a riflettere come nei testi Natale, Pasqua, Le orme, Mia figlia riceve i fiori, C’è una donna nel fondo, autentici cortocircuiti di commozione e bellezza.

Ė sempre del mistero che ci innamoriamo/perché l’amore è l’attimo/che dura così poco/in cui il mistero si dissolve/e improvvisamente una terra ai confini del mondo/ci riguarda” : sono tra i versi epigrammatici della seconda sezione del libro, dove Gianfranco Lauretano vuole metterci a parte del suo viaggio in Russia per dirci come esso gli ha cambiato la vita rinnovandola di nuovi slanci; versi annunciati dai precedenti, che ne sono la premessa “Per troppi anni ti ho trascurato/mia giovinezza, unico ritratto/sola chance di non morire/data alle mie parole, tu c’eri/anche se giocavo a fare il vecchio/vivificando i racconti antichi/in una resurrezione di parole/fioritura stupefacente di mandarini/in un giardino di Russia”.

Così, alla domanda di Nicodemo “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Giovanni 3, 4) il poeta risponde senza esitazione “Nascere come Nicodemo, da vecchi, come dal sudario del tempo si può/ – glielo domanderei ma so già la risposta/…anzi Nascere da vecchi/non solo è possibile – è l’unica cosa possibile. Da qui l’originale, meditato, coerente titolo del libro.

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