Rappresaglia, vendetta o giustizia?

Un adolescente palestinese di 16 anni è stato sequestrato a Gerusalemme est e poi ucciso: lo ha riferito mercoledì 2 luglio la radio dell’esercito di Israele, ipotizzando una rappresaglia per l’assassinio dei tre ragazzi ebrei – Gilad Shaar, Naftali Frenkel e Eyal Yifrah, tra 16 e 19 anni di età, studenti di una scuola rabbinica -, rapiti nella colonia di Gush Etzion, nel sud della Cisgiordania, il 12 giugno. Per tentare di liberarli Israele aveva inviato l’esercito a setacciare l’intera Cisgiordania e soprattutto la zona di Hebron, con centinaia di arresti, scontri con vittime tra i palestinesi,. Raid dell’aviazione israeliana hanno attaccato obiettivi di Hamas a sud di Gaza, indicata come il mandante. Abbiamo chiesto a don Nandino Capovilla, referente della Campagna Ponti e non muri di Pax Christi Italia, un commento.

L’amico Kalil insiste nel chiedermi: “Allora, sarai ancora nostro ospite, abuna?” Ed io, dopo la terribile notizia dell’uccisione dei tre giovani coloni israeliani, davvero non so cosa rispondere loro. Fra pochi giorni dovrei essere ospite della famiglia di Kalil, povera di tutto ma ricca di dignità, affetto, cultura e amicizia. Ma se vi dico che abitano ad Hebron, capite la mia incertezza nel prevedere di poter anche solo entrare in città, dopo che dal 12 giugno è stata sigillata dall’esercito con il pretesto di ricercare i tre giovani.

Ecco, ancora una volta constato che ciò che accade in questa maledetta e santa terra di Palestina, puntualmente non viene raccontato all'opinione pubblica. Tutto deve venir “semplificato” in uno stereotipo che eviti rigorosamente di evidenziare ciò che è la causa di tutto: la terra e le città, la vita e l'economia, la libertà di movimento e forse anche il futuro di milioni di palestinesi, sono stati occupati e colonizzati illegalmente dallo stato d'Israele.

Ma voi dite: cosa c'entra questo con il rapimento e la barbara uccisione dei tre coloni?

La gente, il lettore/ascoltatore, devono continuare ad immaginare che i palestinesi siano tutti terroristi e che ad Israele, da vittima, sia logicamente concesso non solo di difendersi, ma di trasgredire tutte le leggi e le risoluzioni per “vendicarsi”, con “rappresaglie” e “punizioni collettive”, come scrivono i giornali di questi giorni.

Ma in queste ore le parole che vorremmo leggere non sono queste.

L'immenso dolore, l'indicibile lutto che sconvolge tre famiglie e un'intera nazione, dovrebbe ispirare sentimenti di solidarietà, partecipazione, auspicio e impegno a lavorare tutti per togliere benzina alle macchine di odio che la violenza e le armi seminano ovunque. Dovrebbero spingere la comunità internazionale a sostenere davvero chi cerca la pace, che arriverà solo con la giustizia e i diritti per tutti.

Da anni facciamo la spola tra le case di amici israeliani e le parrocchie palestinesi, per gettare ponti di reciproca conoscenza e dialogo.

Ma purtroppo constatiamo che siamo da sempre abituati a dare per scontato che la rabbia degli israeliani debba generare fiumi di risentimento e concrete violazioni e violenze. Con sollievo avevamo preso atto che Israele aveva interrotto la barbara pratica della demolizione delle case delle famiglie dei presunti colpevoli di un atto terroristico. Ebbene, è triste non solo che questa pratica tribale sia ripresa in queste settimane, ma ancor più che i giornali ne parlino come di una cosa normale e giusta.

Farò il possibile per andare dal mio amico Kalil e vorrei invitare tutti i giornalisti che in queste settimane hanno finto di non sapere che i tre giovani “seminaristi” erano coloni e che la città dove erano stati rapiti, Hebron, si trova in Palestina e, come ha acutamente osservato Ugo Tramballi, non era proprio come “il lungomare di Tel Aviv”, visto che si trova nei Territori Palestinesi. Troppo poco hanno scritto delle aggressioni che hanno volutamente trasformato la ricerca dei tre giovani in una autentica punizione collettiva che sta mettendo a ferro e fuoco l'intera Cisgiordania.

Porterei questi giornalisti a venti minuti da Hebron per intervistare gli amici del villaggio di At Twani stritolato dagli insediamenti e da anni preda dei soprusi più pesanti dei coloni.

Sì, perché è diverso leggere i titoli inneggianti alla “durissima vendetta di Israele” e sentire la famiglia che conosci e che ti racconta che una perquisizione notturna illegale dei soldati in casa ha seminato paura e fruttato ai soldati l’equivalente di 2500 euro, la dote di una ragazza che sta per andare in sposa.

D'altra parte, se tutti i pellegrini di giustizia che fra pochi giorni saranno con me a Betlemme hanno solo letto i giornali sulla “prevedibile escalation di violenza” e sentito distrattamente alla TV che ben quattordicimila soldati sono stati mandati ad invadere case, villaggi e città, distruggendo vite, beni, risorse, sono certo che il dottor Nidal, a cui porteremo medicine che Israele gli impedisce di avere, racconterà loro un'altra storia, in cui trova il primo posto la condanna per la brutale sorte dei tre giovani israeliani e insieme lo sconcerto perché i giornali hanno ritenuto di dover appena appena accennare al fatto che ben “dieci persone sono state uccise, tra cui bambini, durante le incursioni. Ed erano tutti disarmati. Più di 500 persone sono state sequestrate ed incarcerate. Ma nessuno dei nostri uomini o donne di Stato ha rivolto loro un pensiero o ha chiesto ad Israele di fermare la punizione collettiva di un intero popolo” (Luisa Morgantini).

Ogni morte e ancor più ogni assassinio, ogni uomo e ancor più ogni giovane che viene ucciso, rivelano la disumanità e la barbarie generata dall'odio. E se ci mancano le risposte e le soluzioni facili, senz'altro abbondano le domande: ma la comunità internazionale, che ora piange e solidarizza, perché non alza con più forza la voce richiamando palestinesi e israeliani al rispetto delle leggi e delle Risoluzioni delle Nazioni Unite? Ma possibile che i palestinesi siano destinati ad essere ritenuti sempre esseri umani di seconda categoria?

Non la vendetta né la rappresaglia ma l'unica risposta resta sempre la giustizia e il rispetto dei diritti umani, per raggiungere veramente la pace.

Nandino Capovilla

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