Matrimoni gay, una rondine non fa primavera

Nei giorni scorsi è stato riservato grande risalto, nei mezzi di comunicazione, alla decisione, presentata come storica, e la prima in Italia, foriera di chissà quante altre analoghe nel prossimo futuro, adottata dal Tribunale Civile di Grosseto che ha ordinato all’Ufficiale di stato civile, contro il precedente di lui diniego, di trascrivere nel competente registro dello stato civile, il matrimonio fra due uomini, cittadini italiani, contratto a New York, con rito civile, nel dicembre 2012.

Celebrato come epocale vittoria di civiltà da una parte e aspramente criticato come ulteriore smantellamento dei cardini fondamentali della famiglia, naturalmente intesa, da un’altra parte, il provvedimento del citato Tribunale si presta a numerosi e contrastanti commenti e rilievi.

Per limitare il campo agli aspetti più propriamente giuridici, non secondari in questa delicata e vessata materia, va preliminarmente ricordato il caratteristico andamento altalenante della giurisprudenza italiana.

Fino ad ora, infatti, nonostante ripetuti ricorsi di persone a ciò interessate, che chiedevano ai giudici di dichiarare illegittimi i provvedimenti dei diversi ufficiale di stato civile che costantemente, secondo le norme vigenti, rifiutavano la trascrizione nei registri del atti di matrimonio dei matrimoni gay contratti all’estero (in Italia non sono consentiti), sia i Tribunali che la Suprema Corte di Cassazione nonché la Corte Costituzionale hanno sempre ritenuta inammissibile la questione e legittimo, quindi, il rifiuto alla trascrizione di detti matrimoni.

Il tanto conclamato diritto di ogni giudice di poter decidere in totale autonomia, che spesso causa al cittadino un giustificato disorientamento a fronte di frequenti palesemente opposte decisioni del medesimo caso adottate dai vari giudici nei diversi gradi del giudizio, non può, tuttavia, prescindere da un preciso obbligo a cui ogni magistrato deve sottostare secondo l’art. 101 della Costituzione: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.

Legge che, pertanto, essi devono in primo luogo conoscere (l’ignoranza della legge non è consentita nemmeno al comune cittadino), rettamente interpretare ed equamente applicare ad ogni caso concreto.

Appare difficilmente comprensibile, in conseguenza, il fondamento giuridico della affermazione, posta alla base della decisione in esame. come riportata dalla stampa tra virgolette, secondo cui nel Codice civile “non è individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie al matrimonio”.

Non è un’opinione ma un preciso dettato costituzionale (art. 29 della Costituzione) il fatto che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” ed è fin troppo facile intuire il concetto e modello di società naturale, costituita da persone di sesso diverso, fondante il matrimonio che l’Assemblea Costituente, nel dicembre del 1947, aveva come unico riferimento quando approvò la Carta costituzionale.

Ad ulteriore riprova, del resto, proprio nel Codice civile, già in vigore da più di cinque anni (aprile 1942) ed evidentemente ben noto ai Costituenti, si rivengono diverse norme che, contrariamente a quanto sembra aver ritenuto il Tribunale di Grosseto, fanno esplicito riferimento al marito ed alla moglie (non al “moglio” o alla “marita”).

Per citarne alcune: “La dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e in moglie non può essere sottoposta né a termine né a condizione” (art. 108 c.c.). Ed ancora: “ Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri” (art. 143 c.c.).

Del resto, la Corte Costituzionale, in diverse recenti pronunce, ha inequivocabilmente affermato che “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio” ed inoltre che: “I costituenti elaborando l’art. 29 Cost., tennero presente la nozione di matrimonio definita nel codice civile del 1942 secondo cui i coniugi devono essere persone di sesso diverso” ((Corte Cost. 15/04/2010 n. 138; 05/01/2011 n. 4).

Ciò non toglie, ma è ben altro discorso, che, sempre secondo la Corte costituzionale, possa darsi un riconoscimento giuridico, in quanto formazione sociale nella vita di relazione di due persone, quale modello pluralistico, all’unione stabile omosessuale ma non, senz’altro, equiparando queste formazioni sociali diverse al matrimonio.

In tal senso, del resto, e solo in tal senso, si è espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, spesso citata a sproposito, lasciando, comunque, liberi i singoli legislatori nazionali di determinare, in concreto, le diverse condizioni per regolare tali unioni, senza alcun obbligo di equipararle al matrimonio.

In ogni caso, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Grosseto ha già, molto tempestivamente, annunciato che impugnerà la decisione del Tribunale in esame e, quindi, vedremo quali saranno gli ulteriori sviluppi.

Una cosa è certa, secondo la saggezza popolare: una rondine non fa primavera, specie in questi tempi, non solo meteorologicamente, assai burrascosi ed instabili.

Alberto Cristanelli

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