L’arte dialoga con lo spirito

Inaugurata a Trento “Infinito Presente. L'elogio della relazione” con artisti di livello internazionale

In stretta connessione ideale con la precedente mostra dedicata alla “strategia delle immagini dopo il concilio di Trento” è stata inaugurata lunedì 24 giugno al Museo Diocesano Tridentino una nuova esposizione: “Infinito Presente. Elogio della relazione”, a cura del gesuita Andrea Dall’Asta, della direttrice Domenica Primerano e di Riccarda Turrina. Con essa per la prima volta a Trento si riflette sul senso dell’immagine sacra nella società odierna. Mediante due opere di artisti trentini (Tullio Garbari e Anna Maria Gelmi) e soprattutto opere di creativi di assoluto livello internazionale si intende offrire un contributo originale all’odierno dibattito intorno al complesso dialogo tra arte e spiritualità.

La Chiesa deve essere il sale della terra, ha il compito di accompagnare l’uomo nel Creato, di uscire dalle sacrestie per andare incontro agli uomini e alle donne nel mondo. Tale operazione non può esistere senza condivisione di valori culturali comuni, e non c’è cultura senza arte: ecco da dove nasce il preciso dovere della Chiesa di ricucire il rapporto fra arte e fede. Un’arte che però non può più avere il compito di “spiegare e spiegando commuovere e commuovendo persuadere”: deve porre domande più che offrire risposte. Al prevalere del ruolo ‘strumentale’ dell’arte sacra ha corrisposto il progressivo depotenziamento del suo carattere simbolico, indebolendo di conseguenza la capacità dell’immagine di rinviare ad una molteplicità di significati, così da attivare percorsi interpretativi profondi e diversificati. Ecco perché nel corso del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento, l’incontro tra uomo e Dio attraverso l’arte si è fatto via via sempre più rado, raro e improbabile.

“Infinito Presente. Elogio della relazione” pone l’accento sulla dimensione dell’incontro che oggi l’arte può favorire e lo fa focalizzando l’attenzione su un tema centrale quanto complesso qual è la Croce. Il simbolo della croce non rappresenta un’azione che si svolge ma rappresenta l’attesa di un evento che a sé stante non ci sarà. I credenti, infatti, sanno bene che la morte del Crocifisso è solo un primo atto al quale ne è seguito senza soluzione di continuità un altro. Con la croce, dunque, si vive una sospensione del tempo, un’ assenza di presenza. A dar corpo a tale concetto in questa mostra assistiamo a un continuo spogliare gli elementi del superfluo per concentrarci sulla essenzialità dell’oggetto. Non a caso la esposizione si apre con una grande, opera di Hidetoshi Nagasawa, autore di formazione zen, composta da otto colonne in marmo di Carrara e acciaio che da un lato poggiano a terra e dall’altro si sollevano verso l’alto: accostate l’un l’altra come nel gioco dello shangai, danno vita ad una costruzione armonica, ma dall’equilibrio instabile. Questa croce allude cioè alla precarietà del vivere contemporaneo, che rende fragile ogni relazione, e invita a custodire con cura la dimensione dell’incontro, tra sé e l’altro, tra cielo e terra, tra uomo e Dio. Lì accanto l’essenziale croce bianca dello svedese Mats Bergquist, ove il bianco rimanda alla purezza ma anche alla luce della rinascita a nuova vita; una luce che l’opera accoglie e rifrange verso l’osservatore. Trovandoci davanti a rappresentazioni così inconsuete può coglierci un certo senso di smarrimento ma presto emergono, e chiari, gli inviti alla meditazione che tali opere emanano. Purché vogliamo ascoltarli.

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