Kobane e la Carta della Rojava

Uno dei tratti politici e culturali caratterizzanti il recente fenomeno terrorista consiste nella negazione del concetto e dell’esistenza dello stato e, di fatto, dell’intero ordine internazionale. Mirando a controllare direttamente intere aree comprese nei territori di più paesi; a imporre le proprie leggi, distinte e spesso opposte rispetto a quelle degli stati sovrani; a rifiutare ogni sistema giuridico esistente, cercando di imporre il dominio sulle coscienze e il controllo sui popoli.

La natura globale e transnazionale di questo fenomeno genera una situazione di fatto non prevista dalla configurazione giuridica della Carta delle Nazioni Unite. La comunità internazionale deve assumersi nuove e inedite responsabilità, riflettendo sui mezzi migliori per fermare ogni aggressione ed evitare il perpetrarsi di ingiustizie.

Le cronache internazionali riferiscono (sempre più stancamente) della situazione del cantone curdo di Kobane in Siria, stretto d’assedio dalle forze jihadiste dell'ISIS.

Un altro luogo – così come Gaza, e molti altri – ormai assurto a paradigma della irrisolvibilità di uno dei nodi cruciali della storia politica internazionale recente e della “inconvenzionalità” della maggior parte dei conflitti che stanno insanguinando il mondo.

I Curdi sono noti per essere la più ampia realtà etnica e nazionale al mondo priva di una propria realtà statuale. Gli esiti del colonialismo hanno negato a questo popolo un riconoscimento che si traducesse in una realtà istituzionale unitaria e hanno frantumato l’antico territorio del Kurdistan, sottoponendolo alla sovranità di Iran, Iraq, Siria e Turchia.

I confini artificiali concordati e definiti sia nell'accordo Sykes-Picot del 1916 che nel Trattato di Losanna del 1923 hanno negato al popolo curdo ogni diritto alla sovranità sulla propria terra, e provocato per molti decenni (con conseguenze che si riverberano fino ai nostri giorni) condizioni di oppressione, tentativi di assimilazione etnica e culturale, inosservanza dei diritti civili elementari.

Al di là della cronaca e del dramma che sta vivendo questa città, in pochi conoscono Kobane come la sede di un’iniziativa dall’altissimo valore civile, giuridico e politico, che meriterebbe di essere conosciuta e riconosciuta a livello internazionale. La città è il centro di uno dei tre cantoni che si sono costituiti in “regioni autonome democratiche”, regolate dalla cosiddetta “Carta della Rojava” (antico nome del Kurdistan occidentale). È un testo che parla di libertà, giustizia, dignità e democrazia tra i popoli della zona (curdi, arabi, assiri, turcomanni, armeni e ceceni); di uguaglianza, di ecologia, di dignità della donna, di autogoverno e di cooperazione, tra liberi e uguali. Netto il rifiuto di ogni assolutismo etnico e di ogni fondamentalismo religioso. E questo avviene nel Medio Oriente di oggi, dove le ragioni confessionali o etniche sono quasi sempre il detonatore di conflitti che celano ben altri cause e interessi portanti. La Carta di Rojava, che nasce come accordo democratico-inclusivo di tutte le parti coinvolte, rappresenta una svolta storica per quella regione, in termini di riferimento a principi democratici che regolino e guidino la vita sociale e politica.

Nelle sue nuove forme la guerra dimostra la propria capacità paralizzante e “destituente”, senza che le istituzioni preposte al governo sovranazionale e alla promozione della pace propongano scenari e percorsi realistici ed efficaci. Rompere l’impasse è una condizione necessaria e possibile soltanto affermando in modo del tutto materiale e non “disincarnato” principi di organizzazione della vita e rapporti sociali radicalmente inconciliabili con le ragioni della guerra: è per questo che l’esperienza della Rojava può assumere un carattere esemplare e paradigmatico.

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