Il risveglio di Barbara

SOMMARIO: Un'oncologa, mamma di due figli, si ammala di cancro a 44 anni e affida la sua testimonianza a un diario-intervista firmato da una dottoressa e una giornalista. Un invito-provocazione a riappropriarsi della pienezza della vita, fino all'ultimo.

Un'oncologa che si ammala di cancro è già un clamoroso ossimoro. Ma è proprio questa apparente contraddizione a rendere ancor più “notiziabile”, direbbero i cronisti, la storia di Barbara Soini, medico al S. Chiara, sposata con due figli, un cancro al colon in fase di metastasi a soli 44 anni. Di quelli a cui la letteratura scientifica affibbia un anno di vita, non molto di più. Qualche sintomo c'era, ma nessun peso particolare, “anche se a uno dei miei pazienti avrei consigliato ben prima un controllo approfondito”, ammetterà in seguito alle amiche Loretta Rocchetti (già stimato medico di base ed esperta di bioetica) e Milena di Camillo (giornalista di razza del quotidiano “Alto Adige” e poi “Trentino”, ora in pensione) nel libro-confessione “Riserva di prognosi”, edito da Erickson e presentato a Trento venerdì 14 novembre in una gremita Sala Falconetto.

“Il titolo 'Riserva di prognosi' e non 'Prognosi riservata' – anticipava Di Camillo ai microfoni di radio Trentino inBlu – indica un passo indietro, rispettoso del male che sarà pure incurabile, ma resta spesso sconosciuto nel suo evolversi; e nel rispetto della persona che lo affronta con risorse spesso impensabili e insondabili”.

Barbara Soini è scomparsa nel gennaio 2014, a quasi cinque anni dalla prima diagnosi. Un tempo inatteso, un “fuori-programma” che ha voluto destinare anche a far mettere nero su bianco la testimonianza di chi può arricchire lo sguardo sul dolore e sulla morte con una lente sdoppiata. “Un'oncologa si ammala e interroga la sanità”, recita il sottotitolo. In realtà le provocazioni che arrivano da queste pagine, dove si fondono tanti generi letterari – diario, intervista, forum, saggio – sono una sferzata per tutti. “Nell'ultimo anno e mezzo di vita abbiamo incontrato Barbara più volte: è nata una relazione amicale profonda, con momenti di riso, di divertimento perché era persona intelligente, gioiosa e auto-ironica; ma anche momenti molto impegnativi dal punto di vista emotivo”. Il libro riflette bene l'alternanza di sentimenti ma soprattutto il coraggio nel sottoporsi a ripetuti interventi e alle pesanti cure, nel tornare finché possibile al lavoro, nel guardare con serenità e realismo negli occhi i figli e il marito, chiedendo al compagno, davvero fedele “nella salute e nella malattia”, di poter bagnare i piedi nell'amato mare di Sardegna, anche se ormai il dolore morde sempre più le viscere.

“Barbara ha scelto di svegliarsi e ci chiede di svegliarci alla vita”, ammonisce nella prefazione la filosofa Laura Campanello che descrive una tentazione diffusa: sentirsi in colpa verso chi è malato per il fatto di vivere, da sani, la vita di sempre. “Ma la colpa – spiega – è quella di non vivere svegli e fino in fondo. Di questo dobbiamo rendere conto a chi è malato: del tempo che sprechiamo, delle opportunità che non vediamo, del dolore che enfatizziamo, perché il vero dolore non ci ha ancora scossi”.

Tra i temi sollevati nel libro – questi sì ad interrogare soprattutto la sanità – la delicatezza del rapporto medico-paziente davanti a una diagnosi severa. O l'aderenza dei protocolli sanitari, come la terapia del dolore, alle esigenze di ogni paziente: “Ho capito – ammette Barbara – l'importanza di trovare un giusto equilibrio tra la necessità di un trattamento e la miglior qualità di vita possibile”. Le fa eco, indirettamente il marito Franco: “Oggi il mio obiettivo – si legge nel testo a conclusione della sua testimonianza – è far sì che ogni momento, che sia un'ora, un giorno, una settimana, sia degno di essere vissuto”.

Un approccio che rappresenta anche la motivazione vera del libro, sostenuto dalla Fondazione Hospice di Trento che vi attribuisce il valore di un bel mattone “culturale”, accanto alla prima pietra (posata sabato 15 novembre) della futura Casa-Hospice per le cure palliative ai malati terminali (in particolare oncologici) operativa da giugno 2016 in località Malpensada, nel capoluogo. “Non a caso – – integra alla radio Di Camillo – si chiamerà “casa-hospice”: un ambiente nel quale il malato che sa ragionevolmente di non avere grandi prospettive di vita viene aiutato a trovare il senso del tempo che ancora sta vivendo. Senso e opportunità. Posso testimoniarlo per averlo vissuto indirettamente: la persona che viene affrancata dal dolore fisico e dalle preoccupazioni sanitarie ha la possibilità di scoprire cose di sé che fino a quel momento non aveva ascoltato. Così, anche se può sembrare cinico, Barbara ci ha lasciato coraggio e determinazione”. “Forse – è la conclusione firmata da Rocchetti – vale anche la pena di addestrarsi a una visione positiva, essenziale della vita, a riconoscere e investire nei valori che contano e penso che questo possa servire per affrontare eventi in se stessi inevitabili e inaccettabili – come la malattia e la morte – ma il modo, questo no, non è inevitabile». Così come il modo di raccontare il momento finale della protagonista. Lasciato, nel libro, a sole tre parole: “A domani, Barbara”.

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