Sul clima solo un debole compromesso

Tappa di avvicinamento alla Conferenza di Parigi del 2015, dove si dovrebbe raggiungere un nuovo accordo universale e vincolante

A dieci anni di distanza dalla ratifica del Protocollo di Kyoto, nel corso dell’anno più caldo di sempre, dal 1 al 13 dicembre 2014 si è tenuta a Lima la conferenza Onu sui cambiamenti climatici, tappa di avvicinamento alla prossima Conferenza di Parigi del 2015 dove si dovrebbe raggiungere un nuovo accordo universale e vincolante allo scopo di limitare il riscaldamento climatico a 2 gradi.

Al termine di lunghe trattative che hanno visto una maratona finale di quasi 30 ore, Manuel Pulgar Vidal, ministro dell’Ambiente peruviano e presidente della Conferenza, ha dichiarato approvato un testo che dispone che i Paesi propongano entro ottobre 2015 propri “obiettivi quantificabili ed equi” per poter definire i termini del nuovo accordo. E’ stato, questo, il frutto di una lunga e difficile trattativa alla ricerca di un compromesso che evitasse un fallimento della Conferenza; l’esito finale è un documento ritenuto debole da molti esperti ed Organizzazioni non governative indipendenti.

La comunità scientifica ha infatti calcolato che per evitare un innalzamento della temperatura media superiore a 2° C è necessaria una riduzione del livello globale delle emissioni di gas serra del 70% entro il 2050. Se non si interverrà adeguatamente e rapidamente, vi sarà un drastico aumento in numero ed intensità degli eventi climatici estremi, già sotto gli occhi di tutti in termini di scioglimento dei ghiacciai, alluvioni, siccità ed innalzamento dei mari.

Di fatto i contrapposti interessi economici hanno svolto un ruolo preponderante nelle trattative. I Paesi sviluppati puntavano ad un documento che privilegiasse nel futuro accordo obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni, in analogia al Protocollo di Kyoto, ma coinvolgendo il maggior numero possibile di soggetti. Gli altri Stati, invece, rivendicavano il diritto a svilupparsi e a crescere economicamente per offrire migliori standard di vita ai propri popoli (come l’elettricità in tutte le case), lasciando ai Paesi maggiormente sviluppati l’onere di accollarsi la riduzione delle emissioni, in quanto storicamente responsabili di uno sviluppo industriale basato su forti emissioni di gas serra, e chiedendo supporto finanziario e tecnologico per favorire uno sviluppo sostenibile.

L’appassionato intervento del presidente della Bolivia, Evo Morales, alla cerimonia di apertura, aveva preannunciato il punto di vista di alcuni di questi Paesi: “Dopo anni di furti perpetuati dai Paesi del Nord nei confronti del resto del mondo, ora si cerca di rubarci anche il futuro firmando accordi che non vengono rispettati dai Paesi più ricchi, i quali vorrebbero che fossero gli altri a rimediare a quanto avrebbero dovuto già fare”.

In effetti, alla Conferenza di Cancun nel 2010 si era deciso che per aiutare i cosiddetti Paesi in via di Sviluppo, i Paesi più sviluppati avrebbero dovuto fornire complessivamente 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 in investimenti. Ad oggi, però, il Fondo Verde per il Clima, che sarà attivo dal 2015, ne ha a disposizione solo 10 per tutto il periodo e non è chiaro se e quanti capitali privati sarà in grado di attirare. Se si raffronta tale dato con la spesa per gli armamenti, che nel 2013 è stata pari a 1.700 miliardi di dollari a livello mondiale, di cui 640 solo da parte degli Stati Uniti, si comprende parte dello scetticismo nei confronti dell’impegno dei vari stati.

Tra un anno sapremo quale sarà la decisione definitiva, ma è necessario che qualcosa cambi per arrivare ad un accordo efficace. Si si suole dire che “siamo l’equipaggio della nave spaziale Terra”: al momento pare che tutti sappiano che stiamo andando contro gli scogli, ma nessuno vuole assumersi l’onere di reggere il timone.

Alberto Bonomi*

membro della delegazione italiana alla Conferenza sul Cambiamento Climatico di Lima

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