I cori patrimonio dell’umanità?

Avviato l'iter per iscrivere il canto popolare trentino nella lista dei beni culturali tutelati dall'UNESCO]

[L'esperto Antonio Carlini: “Il canto di montagna è uno dei pochi prodotti culturali del '900 tipicamente trentino”

“Che capolavoro!”. Si può dire guardando un'opera d'arte, un monumento architettonico, un'area archeologica, qualcosa di tangibile come anche un parco naturale o un'intera città, da custodire perché rimanga sempre “intatto” e disponibile nella sua bellezza agli occhi di chi lo vuole ammirare. Ci sono altri capolavori che sono immateriali ma che sono altrettanto preziosi perché sanno raccontare l'identità di un popolo nella sua essenza più viva: melodie musicali, stili teatrali, danze rituali… espressioni di antiche tradizioni che spesso non hanno una codificazione “scritta” ma sono tramandate oralmente nel corso delle generazioni.

L'UNESCO si è posta il problema di salvaguardare anche questi beni, come fa per i siti patrimonio dell'umanità (dal 2009 lo sono le nostre Dolomiti). Da alcuni anni esiste una “Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”, un elenco in cui ambisce ad entrare anche il canto popolare trentino.

La proposta è stata lanciata da Sergio Franceschinelli, presidente della Federazione cori del Trentino, nell'editoriale di dicembre del periodico Coralità: “Il canto di tradizione popolare maschile è senza dubbio espressione e produzione tipicamente trentina e genuinamente legata al territorio della montagna e quindi potrebbe avere le ‘carte in regola’ per rientrare nell’orbita Unesco”.

Per ottenere il riconoscimento, infatti, l’elemento in questione deve essere una forma di cultura originale e identitaria di una zona. Non ha dubbi Antonio Carlini, direttore artistico della Filarmonica di Trento e storico autorevole del canto popolare: “Il canto di montagna è uno dei pochi prodotti culturali del '900 tipicamente trentino, riconosciuto come tale anche a livello internazionale. Siamo ai livelli del futurismo di Depero”. Questo non vuole dire che nelle altre regioni montane non esista una tradizione canora: “nella forma originaria il canto di montagna appartiene a tutta la cultura delle Alpi”, chiarisce Carlini. Ma è in Trentino che è nato il canto di montagna così come lo conosciamo ora, con la fondazione nel 1926 del Coro della SOSAT. Il Coro ha codificato una tradizione già esistente, inventando un nuovo modo di cantare: i brani, fino ad allora eseguiti ad una sola voce, vennero riadattati e armonizzati nella struttura classica a 4 voci maschili. “Nella forma in cui si è sviluppato, con il modello della SAT, il canto popolare di montagna è quindi un elemento identitario molto forte per il Trentino” (cosa che non si può dire, ad esempio, della poesia o del teatro dialettale, o della tradizione bandistica, presenti anche in altre regioni).

A raccontare l’identità della nostra terra, dunque, non sono tanto, o non solo, i testi delle canzoni (che descrivono la vita della gente di montagna, l’amore, la guerra, la spiritualità…), quanto il canto stesso. “Il modello SAT riassume da una parte la semplicità armonica di stampo classico viennese, e dall’altra la creatività e un po’ di senso improvvisativo nel modulare la seconda e la terza voce, tipico italiana; un modello che esprime una nostalgia, una severità, una emotività tipica della gente di montagna, raccontando perfettamente il carattere della nostra terra. Lontano, ad esempio, dalla brillantezza del canto sguaiato delle terre di mare”. Una forma di canto considerato tipica da molte pubblicazioni storiche, che parlano di canto maschile a quattro voci “alla trentina”; lo steso Bepi De Marzi chiamava così le sue canzoni.

Il canto popolare trentino avrebbe dunque diritto ad essere protetto dall’UNESCO. Certo ottenere il riconoscimento non sarà facile, ammette Franceschinelli, anche per la notevole documentazione richiesta. “Ma vale la pena provarci”. L’iter è già stato avviato; prima di presentarsi all’UNESCO occorre l’approvazione di un’autorità nazionale: una commissione della Federazione cori sta raccogliendo il materiale (saggi, documenti, testi storici) da sottoporre al Ministero del beni culturali. Se tutto andrà a buon fine, passerà comunque qualche anno prima di ottenere il riconoscimento. Ma la Federazione procede con convinzione: “Sarebbe una grossa soddisfazione per tutta la coralità trentina e una griffe di altissimo prestigio per l’intera Provincia di Trento, ma anche un ‘marchio’ capace di trasferire un valore aggiunto a livello promozionale e di autorevolezza all’espressione corale e in definitiva, all’attività dei nostri cori, specie quando si presentano al di fuori dei confini nazionali”.

Non si tratta di “rivendicare” un modo di cantare diffuso anche altrove (che è anzi occasione di dialogo tra comunità montane “straniere”), ma di riconoscerne le origini e tutelarlo da possibili contaminazioni legate ai processi di globalizzazione e trasformazione sociale. “Non si sa mai come vanno le dinamiche culturali…” dice Antonio Carlini, ricordando la vicenda della “meravigliosa stagione della musica leggera italiana, completamente cancellata negli anni '50 da quella americana e anglosassone, nonostante fosse di altissimo livello: “Non possiamo escludere il rischio di perdere il nostro patrimonio di canto popolare. Negli ultimi anni per esempio la grande stagione del canto corale è guidata dalle culture nordiche, quelle della Lituania e dell'Estonia, mentre la tradizione italiana sta arretrando”. Si tratta dunque di un riconoscimento importante: “la cultura ha bisogno di sostegno, questo sarebbe un riconoscimento assolutamente da non sottovalutare, anzi: da sfruttare”, conclude Carlini.

Dal canto polifonico dei pigmei Aka dell'Africa Centrale ai cantastorie kirghizi, dal canto sacro buddista del Ladakh al canto a tenore della cultura pastorale sarda, nella lista UNESCO dei beni culturale immateriale dell'umanità il canto popolare trentino sarebbe in buona compagnia. Ad oggi la lista conta 314 elementi. L'Italia ne ha iscritti sei: oltre al canto dei “tenores”, ci sono l'opera dei Pupi siciliani, il saper fare della tradizione liutaria cremonese, la dieta mediterranea, le celebrazioni delle grandi “macchine a spalla” (le grandi strutture per portare ceri e statue nelle processioni religiose o patronali) e, dallo scorso novembre, la vite ad alberello di Pantelleria, cioè il metodo di produzione dello Zibibbo (il vino liquoroso siciliano), prima pratica agricola ad ottenere l'autorevole riconoscimento.

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