I primi nodi al pettine

Stiamo facendo i conti con un sistema parlamentare che è fatto non per produrre decisioni, ma per tarpare le ali alle politiche riformatrici

Che la fase due di Renzi non si avviasse ad essere un cammino cosparso di rose e fiori l’avevamo intuito ed ora ne abbiamo conferma. A parte la riforma del lavoro, infatti le riforme annunciate e avviate dal governo stanno, per usare un eufemismo, incontrando difficoltà.

Il problema di fondo è che, come è già avvenuto tante volte nella storia italiana, stiamo facendo i conti con un sistema parlamentare che è fatto non per produrre decisioni, ma per tarpare le ali alle politiche riformatrici. Bersani ha affermato da Lilli Gruber che anche ai tempi dei governi Prodi e D’Alema si sono fatte riforme, ma sempre tenendo conto dei “suggerimenti” del parlamento. E’ avvenuto così anche sotto i governi Berlusconi, basti pensare alla riforma dell’università. Il fatto è che se si esaminano i progetti come sono partiti e si leggono le leggi che li hanno resi attuabili sarà facile vedere che i “suggerimenti” parlamentari sono stati in genere degli strumenti per introdurre norme che complicavano, depotenziavano e facevano perdere coerenza a quanto si voleva raggiungere.

Renzi aveva sperato di poter fare a meno di queste tortuosità, contando sulla spinta di una opinione pubblica che lo sosteneva senza riserve. E’ stato ingenuo a non considerare che il favore dell’opinione pubblica non dura mai a lungo, sicché nella attuale fase è costretto a fare i conti con il ritorno in scena delle varie lobby e dei diversi grumi di interessi che pervadono la nostra vita politica.

Si aggiunga un dato che è stato oggetto di scarsa considerazione: il cambio di inquilino al Quirinale. Napolitano, che era molto consapevole dei guasti che derivano da questo parlamentarismo consociativo (ci aveva vissuto in mezzo per una vita), lo sosteneva al limite dei suoi poteri. Mattarella per ora non lo fa. Probabilmente perché in una fase iniziale del suo mandato non se lo può consentire, ma anche per un approccio da “giurista” che forse non è quello più utile.

La prova di questo è nella diatriba che si sta aprendo sull’uso dei decreti legge. Che questa fosse una anomalia lo sapevano tutti ( a chi scrive lo insegnavano quand’era studente di giurisprudenza quarant’anni fa …), ma tutti sapevano anche che la decretazione era l’unico strumento in mano del governo per avere un provvedimento di legge approvato in tempi ragionevoli. Tecnicamente ci sono anche altre soluzioni: in Francia si ottiene con la prerogativa del governo di poter chiedere il voto su un disegno di legge troncando il dibattito parlamentare. Da noi questo si può fare solo ponendo la questione di fiducia, ma è come se anziché sparare con un mortaio si dovesse ogni volta lanciare una testata atomica.

Nel momento in cui la riforma elettorale si è impantanata perché farla andare avanti significherebbe spaccare il PD (e qui l’irresponsabilità dell’opposizione interna è veramente grande), quella del senato langue nelle lungaggini della riforma costituzionale, l’impossibilità di ricorrere regolarmente a decreti mette il governo Renzi in grosse difficoltà. Lo si vede sulla questione della riforma della RAI, che si invoca da anni, ma che ancora una volta nessuno vuole e lo si vede nella questione della riforma della scuola.

Qui in verità il premier sta cercando di giocare d’astuzia. Ha infatti accettato di ritirare il decreto con cui voleva assumere gran numero di precari (l’ha fatto senza curarsi del ministro competente, ma questa è solo la prova di come è considerata l’on. Giannini) ed ha così messo il parlamento in una posizione sgradevole. Se infatti non passano velocemente il disegno di legge proposto, a settembre 120 mila persone che aspettavano di essere immesse in ruolo non lo saranno. Conseguenza: il parlamentarismo pagherà il prezzo di un’alta impopolarità.

Sull’altro versante, se il parlamento si arrende perché non può permettersi questa delegittimazione, dovrà far passare in blocco una legge complessa in tempi rapidi e dunque con poca possibilità d’intervento. In questo modo regalerà a Renzi la prova che non è il procedimento parlamentare in sé il responsabile delle lungaggini, ma l’uso improprio e corporativo che ne fanno i partiti e questa classe politica.

E’ una partita molto rischiosa, specie in presenza di un PD sempre più preda delle sue guerre intestine e con una pressione crescente del populismo legista e grillino.

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