L’Europa difficile

L’Italia non sembra rendersi conto fino in fondo della drammaticità di questa fase

Mentre a leggere troppi discorsi politici sembra che i destini del mondo dipendano dall’esito delle elezioni amministrative del 31 maggio, l’attenzione per quel che sta succedendo in Europa non è intensa come dovrebbe. Certo ogni occasione è buona per speculare con paralleli sulle cose di casa nostra: così il successo relativo di “Podemos” in Spagna serve per trarre auspici sull’onda positiva che arriderà ai futuri successi di Grillo, di Salvini, di Civati e magari di altri.

La situazione è più complicata e soprattutto più preoccupante. Al momento più dei successi dei movimenti populisti, che indubbiamente hanno un peso, ma non si sa ancora quanto duraturo, ad impensierire è il risorgente nazionalismo dei governi dei vari paesi a fronte di un vertice europeo che non ha fatto alcun passo avanti dopo la deludente esperienza del duo van Rumpoy-Barroso.

Il nuovo presidente della UE, il polacco Donald Tusk, è una sorta di fantasma che per di più non batte neppure i classici colpi per palesare la sua presenza. Farsi meraviglia perché nel suo paese la destra ha buttato giù il presidente Komorowski che del presidente UE era stato uno degli sponsor non ha molto senso. La Polonia ha guadagnato enormemente dalla sua inclusione nell’Unione, ma ovviamente a vantaggio delle realtà urbane (e qui neppure di tutte le componenti), per cui le campagne e gli esclusi dal nuovo benessere hanno fatto blocco e hanno eletto un conservatore piuttosto reazionario. Non esattamente qualcosa che possa farci dormire sonni tranquilli.

Il presidente della Commissione Juncker non si è rivelato quella scelta illuminata che era stata preconizzata da tanti. E’ curioso che proprio un uomo accreditato di essere un esperto di problemi economici e da qualcuno di essere anche un abile mediatore non sia riuscito a produrre una qualche leadership né davanti alla crisi economica greca né davanti all’emergenza immigrazione.

In queste condizioni aspettarsi che non faccia presa l’antieuropeismo è piuttosto velleitario. La domanda provocatoria su cosa serva spendere una montagna di soldi per mantenere a Bruxelles una massa di burocrati super pagati che non producono non diciamo decisioni, ma neppure direzione politica è di quelle a cui è sempre più difficile rispondere.

La spiegazione per cui in una fase di transizione complicata in politica interna è il famoso “sacro egoismo” la stella polare dei governi è vera fino ad un certo punto. I vertici dei paesi UE devono seriamente porsi il problema della tenuta del sistema, se esso non è più in grado di distribuire vantaggi ai suoi consociati. La questione della vergognosa marcia indietro sull’accoglimento per quote delle masse di migranti che si stanno scaricando su alcune coste europee è emblematica: certo non è facile far digerire ad opinioni pubbliche esasperate dalla prospettiva di una crisi economica difficilmente dominabile l’idea che ciascuno deve farsi carico di questo esodo biblico, ma illudersi che così il cerino verrà semplicemente lasciato a bruciare le dita dei paesi di sbarco è davvero miope.

La Gran Bretagna si avvia ad un referendum sulla sua permanenza nell’Unione. Come si può pensare che non si chiederà in più paesi di ripetere l’esperimento? La Grecia dimostra che l’Europa non è sostanzialmente capace di ridurre alla ragione un paese che continua a fare il furbo con le sue falle economiche. Si pensa che l’esempio non farà scuola?

L’Italia non sembra rendersi conto fino in fondo della drammaticità di questa fase. Può anche darsi che almeno in alcuni ambienti la faccenda sia ben presente e che si preferisca tacere al proposito per evitare allarmismi pericolosi oltre che inutili, perché tanto non si sa cosa potremmo fare.

Eppure la situazione libica è lì per rammentare a tutti quanto i singoli stati siano impotenti ad intervenire da soli e quanto, purtroppo, l’Unione lo sia altrettanto. Il caos in quel paese è supportato, come ha descritto con lucidità Romano Prodi, dagli interessi delle grandi potenze a mantenerlo per tenersi reciprocamente in scacco. L’Europa non ha alcuna capacità di mettere i “grandi” (ma neppure i “medi” che collaborano con essi) di fronte alla responsabilità di stare accendendo un rogo che sta espandendosi sempre più (e basta ricordare cosa sta avvenendo in Siria e in Iraq).

Solo il provincialismo inveterato delle nostre classi politiche può continuare a credere che il problema del futuro sia quel che faranno Berlusconi, Salvini, Civati e compagnia varia.

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