Verso Parigi in ordine sparso

Se non si interverrà adeguatamente e rapidamente, vi sarà un drastico aumento in numero ed intensità degli eventi climatici estremi

La comunità scientifica ha calcolato che per evitare un innalzamento della temperatura media superiore a 2°C è necessaria una riduzione del livello globale delle emissioni di gas serra del 70% entro il 2050 rispetto al 1990. Se non si interverrà adeguatamente e rapidamente, vi sarà un drastico aumento in numero ed intensità degli eventi climatici estremi, già sotto gli occhi di tutti in termini di scioglimento dei ghiacciai, alluvioni, siccità ed innalzamento dei mari.

A Lima, sede nel dicembre 2014 della Conferenza delle Parti COP20, i contrapposti interessi economici hanno svolto un ruolo preponderante nelle trattative che hanno portato al documento di indirizzo per la COP21 di Parigi (30 novembre – 11 dicembre 2015).

I Paesi sviluppati puntavano a un documento che privilegiasse nel futuro accordo obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni, in analogia al Protocollo di Kyoto, ma coinvolgendo il maggior numero possibile di soggetti. Gli altri Stati, invece, rivendicavano il diritto a svilupparsi e a crescere economicamente per offrire migliori standard di vita ai propri popoli (come l’elettricità in tutte le case), lasciando ai Paesi maggiormente sviluppati l’onere di accollarsi la riduzione delle emissioni, in quanto storicamente responsabili di uno sviluppo industriale basato su forti emissioni di gas serra, e chiedendo supporto finanziario e tecnologico per favorire uno sviluppo sostenibile.

Va sottolineato che rispetto gli obiettivi del Protocollo di Kyoto, che puntava a bloccare il riscaldamento globale puntando sulla riduzione delle emissioni, ora si punta a ridurre le emissioni, ma anche ad “adattarsi” al cambiamento climatico che ci sarà (discende da qui l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura a non più di 2°C che però comporterà la perdita di numerosi atolli e l’innalzamento del livello del mare).

Ad oltre sei mesi di distanza dalla Conferenza di Lima, le posizioni sono ancora lontane dal raggiungere un accordo su un obiettivo sufficientemente ambizioso.

Il negoziato funziona come segue: ogni Paese propone l’obiettivo/impegno che vuole raggiungere, e poi si converge verso un testo unico, non vincolante (sebbene l’Unione europea spinga perché diventi vincolante, come era il Protocollo di Kyoto). Vi sono una serie di incontri a vari livelli (informali, formali, tra ministri e tra rappresentanti a vari livelli) per cercare di raggiungere una bozza condivisa. Le discussioni sono sostanziali (ad esempio, come finanziare il fondo da 100 miliardi di dollari che i Paesi ricchi dovrebbero metter a disposizione di quelli in via di sviluppo per adottare tecnologie pulite) o su aspetti più formali e di ostruzionismo (una delle tipiche discussioni è se nel testo finale bisogna mettere “shall” invece che “must”…).

Gli ultimi incontri significativi in vista dell’appuntamento di Parigi sono stati a giugno la Bonn Climate Change Conference e, a luglio, l’incontro in Lussemburgo tra i ministri dell’Ambiente del blocco europeo, Brasile, Messico, Stati Uniti, Russia, Australia, Canada, Cina India, Indonesia, Giappone, Corea del Sud e Sudafrica. Il gruppo (MEF) (Major Economies Forum on Energy and Climate) emette l’80% delle emissioni mondiali di gas serra.

Ad oggi sono stati raggiunti risultati alterni. Va detto che il quadro economico internazionale è contrastante in termini di impatto sulla produzione di emissioni di CO2: il calo del prezzo del petrolio non aiuta, dato che a prezzi così bassi risulta meno conveniente adottare tecnologie bassoemissive e puntare ad utilizzare energie rinnovabili. Di contro il rallentamento del PIL cinese potrebbe portare ad una riduzione delle emissioni (come accaduto nel 2008 a livello mondiale).

Il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, ha presentato l’11 agosto scorso il “Clean Power Plan“ (riduzione delle emissioni nella produzione di energia nel settore elettrico), impegnando gli Stati Uniti a ridurre le emissioni del 32% rispetto al 2005 entro il 2030. Questo è un passo avanti, ma del tutto insufficiente. Fare riferimento al 2005 invece che al 1990 (anno di riferimento degli obiettivi vincolanti a livello mondiale) vuol dire avere un’effettiva riduzione di meno del 20% rispetto al 1990 a fronte dell’obbiettivo del -40% dell’Unione europea.

Alla Conferenza di Cancun nel 2010 si era deciso che per aiutare i Paesi in via di sviluppo i Paesi più sviluppati avrebbero dovuto fornire complessivamente 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 in investimenti. Ad oggi, però, il Fondo Verde per il Clima ne ha a disposizione solo 10 per tutto il periodo e non è chiaro se e quanti capitali privati sarà in grado di attivare.

Alberto Bonomi

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