Una barca. D’amore

Quattro anni fa Roberto Vecchioni cantava un inno all'amore che commosse l'Italia. In tempi sì di migrazione, ma ancora non sospetti, citava la “barca che è volata in cielo, che i bimbi ancora stavano a giocare, che gli avrei regalato il mare intero, pur di vedermeli arrivare”. C'erano poi, da un lato, il poeta reso muto, l'operaio senza lavoro, i giovani senza più speranze; sul fronte opposto, il “bastardo sempre al sole” e “il vigliacco che nasconde il cuore”. Un quadro sconfortante, dominato dai “signori del dolore”, per contrastare i quali il cantautore non poteva che indicare la “musica”, le “parole” e le “idee”. Ma a sorprendere fu soprattutto l'appello contenuto fin dal titolo, rivolto a se stesso e a chiunque lo ascoltasse, forse anche a quel Dio intento ad osservarci in uno “sputo d'universo”: “Chiamami ancora amore, difendi questa umanità, anche restasse un solo uomo…”.

A ripercorrerlo oggi, quel testo sembra descrivere, laicamente, il dovere della misericordia come elemento chiave della natura umana. Altamente umana, perché pensata da Dio a sua immagine e somiglianza, decidendo poi di farsi lui stesso uomo tra gli uomini, per ribadire il fondamento esistenziale di ciascuno, ben prima di ogni appartenenza di fede. Tale presupposto ci considera titolari di un diritto primario a restare in vita e a farlo con tutta la dignità delle persone libere. Libere di amare anzitutto se stesse (lo ribadisce anche la laicissima psicologia) e di non svendere la propria umanità, prima ancora che quella altrui.

Chissà se è questa la consapevolezza a cui ci invita Papa Francesco mentre da Cuba rilancia il suo solenne “no” a slogan e ideologie, per essere invece “servitori degli uomini”. A cominciare dai più piccoli e indifesi, quei bambini intenti a giocare su un barcone, o costretti su una strada: “Non sono numeri o pacchi, hanno i nostri stessi diritti, perché ogni bambino abbandonato è un grido che sale a Dio”, ammoniva sempre Francesco al recente simposio della pastorale di strada.

Chissà se è questa la compassione misericordiosa a cui, nella partecipata assemblea diocesana di sabato 19 settembre, propedeutica all'Anno Santo, sono stati invitati i cristiani trentini. Una misericordia “senza se” e “senza ma” è sembrato chiedere il monaco Enzo Bianchi che ha spodestato se stesso, munito della patente di mistico, dal podio della perfezione cristiana per farvi salire gli sposi e le famiglie con tutto il loro carico di fatica quotidiana.

Chiamami ancora amore. Lo dice di sé la misericordia stessa: sono sempre io, l'amore evangelico, sotto altro nome. E quell'amore, tradotto, ti fa guardare all'altro come uomo, senza apporre etichette di sorta, se non quella di figlio di Dio. Ecco la verità rivelata, da testimoniare senza brandirla con foga di giudizio.

Riprenderci l'umano come fine ultimo della creazione. Rintracciandolo dentro di noi: è la sfida più attuale, al centro non a caso del convegno ecclesiale di Firenze, chiamato a novembre a delineare un nuovo umanesimo cristiano. Che non interessa solo la parrocchia dei praticanti. Forse anche per questo, nel 2011, Vecchioni trionfò a Sanremo.

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