“C’ero anch’io su quel barcone”

La fuga dalla Libia del dopo Gheddafi fino a Lampedusa. “Ricordo di essere rimasto tre giorni chiuso nella stiva della barca”

“Io non avevo mai sognato l'Europa. In Libia avevo un lavoro soddisfacente in una fabbrica dove si producevano sacchetti in plastica, ero anche responsabile di un gruppo di operai. Purtroppo però nel 2011 con la caduta del regime di Gheddafi, restando in Libia, avrei rischiato la vita. Perché appartengo al popolo Tuareg (una popolazione semi nomade che vive tra Mali, Niger, Algeria, Libia, Burkina Faso e Ciad, ndr). Molti Tuareg erano arruolati nell'esercito dell'ex leader. Se mi avessero preso temevo che per vendetta i ribelli, oppositori al regime, mi avrebbero fatto morire in carcere fra atroci torture, pur non essendo mai stato tra le ex milizie”.

Colpiscono per l'estrema chiarezza le parole di Mussa (Mosè, in italiano, ndr), un ragazzo partito da Tripoli e arrivato fino a Lampedusa su un peschereccio con altri profughi. Lo abbiamo incontrato per avere una testimonianza di prima mano che vada oltre le cronache di giornali e tv di uno dei tanti viaggi della speranza che migliaia di uomini, donne e bambini compiono verso l'Europa su “carrette del mare” o nascosti nei tir per il trasporto merci.

“Del viaggio – racconta ancora Mussa – ricordo di essere rimasto tre giorni chiuso nella stiva della barca, dove in genere si carica il pesce. E' stato terribile, più volte ho pensato di morire soffocato. Siamo anche stati fermi per due o tre ore, non riuscivamo a superare un'onda, avevamo paura che il barcone affondasse”. “Ma – prosegue – ho ancora bene impresse le immagini delle tante persone di religioni e nazioni diverse raccolte in preghiera. In quel momento drammatico, in un completo silenzio, eravamo tutti uguali, un unico essere umano. Anzi era proprio la preghiera l'unica cosa, per non perdere il controllo, per avere la forza di resistere e continuare a sperare di arrivare salvi sulla terra ferma”.

Dopo quattro anni in Trentino, Mussa parla un buon italiano. Conosce tanti amici che lo stimano. Dopo aver ottenuto l'asilo politico, ha lavorato nell'assistenza alla persona. Ma, spiega, fin dall'arrivo a Lampedusa non si sente ancora libero di entrare in un bar o in un ufficio per il timore di incontrare persone con sguardi sospettosi, diffidenti, a volte velati anche di razzismo.

Per superare i pregiudizi Mussa non offre soluzioni immediate, ma indica il bisogno di creare le condizioni per una convivenza tra culture diverse, come succedeva in Libia prima della guerra quando i Tuareg vivevano serenamente in molte città con tanti stranieri.

“Le persone – conclude Mussa – devono essere aiutate a combattere la paura che arrivi qualcuno per portare via qualcosa, devono capire le cause di questa paura, chiedendosi profondamente cosa sia il rispetto tra gli esseri umani e la giustizia. Questo vale per tutti, italiani e non, senza ‘dar da mangiare all’odio’, permettendo a ognuno di sentirsi una persona, di vivere dignitosamente. Perché è questo che deve fare un essere umano”.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina