«Una teologia per l’”oltre”»

SOMMARIO: «Ai preti serve maggiore formazione continua» «Non si dica che Francesco non è un papa teologo». «Di fronte all'idea del “postumano” serve l'umanesimo vissuto nelle nostre comunità: è il compito della Chiesa di fronte a una società appiattita sull'oggi e sulle realtà materiali

«Ho potuto ritoccare con mano che qui a Trento ho tanti di quegli amici, con in quali la mia vita si è incrociata nel tempo». Invitato per l'inaugurazione dell'anno accademico dello STAT, il cardinale Giuseppe Betori, classe 1947, arcivescovo di Firenze, lo premette a radio Trentino inBlu, prima di scostarsi dal microfono per abbracciare il vescovo Bressan, e via via tanti preti trentini, incontrati a Roma negli anni di studio e della successiva direzione dell'Ufficio catechistico nazionale, e ancor più da segretario generale della Cei dal 2001 al 2008.

Ripensando alla sua esperienza di studente di teologia, cosa le torna alla mente con maggiore forza?

Direi anzitutto il metodo che i miei buoni gesuiti mi hanno trasmesso. Perché, è vero, dobbiamo dare contenuti ai nostri studenti, ma dobbiamo offrire, soprattutto ai futuri preti, un modo con cui alimentare la loro formazione. E' un punto debole riconosciuto anche dai vescovi italiani: investiamo molto nella preparazione al sacerdozio ma non altrettanto nella formazione continua. Se vale per le altre professioni, a maggior ragione per chi ha responsabilità pastorali come i nostri preti.

Il messaggio che vuole passi agli studenti dello Stat?

Anzitutto l'amore al Concilio Vaticano II. E' la radice: non abbiamo altre modalità di accesso alla fede e all'esperienza di Chiesa. Anche i papi di questi sessant'anni ci mostrano, pur nella varietà di ciascuno, che la fedeltà al Concilio è la stella polare che ci guida. Io, come insegnate di Sacra Scrittura poi ne vedo la centralità della costituzione Dei Verbum di cui sono stato invitato a parlare a Trento.

Se dovesse spiegarla, la Dei Verbum, non agli addetti ai lavori ma all'uomo della strada?

Ci aiuta a scoprire che la fede non è possesso di nozioni su Dio e sull'uomo, ma l'incontro con cui Dio ha voluto farsi amico dell'uomo. Oggi diventa difficile proporre la verità della fede che sembra così in contrasto con le opinioni dominanti. Ma questa verità è tale se la scopriamo non come insieme di regole, ma come la persona di Gesù Cristo che vuole incontrare ciascuno di noi. Qualcosa che non si impara, ma di cui si fa esperienza.

Lo studio della teologia da anni non è più solo materia da seminaristi o religiosi ma anche per tanti laici, soprattutto donne? Con quali riflessi?

Credo ci aiuti a capire come la verità della fede trovi declinazioni sempre più varie nel popolo di Dio, con volti e ruoli diversi nella Chiesa e nel mondo. Lo studio poi è dialogo. E quindi l'esperienza viva di persone che hanno famiglia, lavorano, e studiano anche teologia può aiutare a vedere la verità del vangelo in modo più approfondito e anche, perché no, più accattivante.

Il pontificato di Francesco come pensa stia incidendo nella riflessione teologica?

Smentisco anzitutto questa “vulgata” di chi chi dice che questo non sia un Papa teologo. Ha una teologia diversa dalla nostra: i suoi fondamenti teologici sono legati alla sua formazione ignaziana di gesuita e ad un approccio teologico più esperienziale, tipico del mondo sudamericano da cui proviene. Servono parametri nuovi, ma non possiamo pensare di dover bypassare la teologia per avere accesso a Francesco.

La Diocesi di Firenze si prepara ad ospitare il convegno, decennale della Chiesa italiana sul tema “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Lei come proverebbe a declinarlo?

Oggi siamo di fronte all’affermarsi, da un parte, di una dimensione puramente animale dell’esistenza; dall’altra di una vera e propria invasione tecnologica che vorrebbe esaurire l'ambito di intelligenza e libertà dell'uomo. Oggi si sente ormai parlare di ‘transumano”, di ‘postumano’. A Firenze si cercherà di approfondire non una teoria dell’umano ma le esperienze del “bello” di un umanesimo vissuto nel concreto delle nostre comunità, come risposta alle tante esperienze di disumanizzazione che vediamo attorno e dentro di noi.

Quale della parole chiave di Firenze, ispirate dell’Evangelii Gaudium di Papa Francesco – uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare – le sembra interroghi di più la Chiesa?

Mi consenta di cambiare la domanda: perché queste parole? Le parole sono in stretta continuità con il convegno di Verona e cercano di mettere in espressione dinamica quell'attenzione alle dimensione della persona e della società che erano state poste al centro, piuttosto che gli esercizi della pastorale. Questi verbi rimettono in moto quella volontà. Se poi devo sceglierne una allora dico che a mio giudizio abbiamo bisogno soprattutto di trasfigurare, cioè la capacità di dire l'”oltre” che sta dentro ogni quotidiano. E' il compito della Chiesa di fronte ad un'umanità troppo appiattita sull'oggi, sulle cose, sulle realtà materiali.

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