Franco Vitti, il poeta della luce

Una visita all'ultimo laboratorio fotografico della regione, che chiuderà a fine dicembre, dove la fotografia è ancora una questione di… sensibilità

Trento, 14 dicembre – Arrivarci è un'impresa. Bisogna sapere dove andare. E se non ci fosse il paziente Gianni Zotta, potrei girare per chissà quanto tempo tra i garage e i cortili sovrastati dalla sede di Economia da una parte e i condomini con i fili tesi in attesa di panni da stendere dall'altra, in questo angolo appartato di via Rosmini. Sembra quasi nascondersi il laboratorio fotografico di Franco Vitti, ultimo artigiano del bianco e nero, in pensione da pochi mesi e prossimo ad abbassare definitivamente la serranda, il 31 dicembre prossimo. Del resto, non erano più molti ormai i clienti di questo che è l'ultimo laboratorio di sviluppo fotografico artigianale del bianco e nero del Trentino – Alto Adige: una manciata di professionisti dell'immagine e qualche appassionato, “anche da Bolzano”, dice Vitti. Lo incontriamo nel suo laboratorio proprio il giorno in cui i quotidiani nazionali danno l'addio a Mario Dondero, grande fotoreporter morto domenica 13 dicembre a 87 anni, che con la sua Leica aveva raccontato guerre e ritratto intellettuali, ma soprattutto la gente comune. “Oggi si pensa alle mostre e le storie non ci sono più”, aveva detto una volta agli amici di Redattore Sociale. Prima coincidenza.

L'interno del piccolo ufficio, due metri per due, è tappezzato di manifesti, rigorosamente in bianco e nero, di mostre di fotografia, tra cui una locandina della mostra “Walking” dell'amico Floriano Menapace (storico della fotografia trentina, autore di saggi e testi critici e fondatore dell'Archivio Fotografico Storico della Provincia Autonoma di Trento), qualche riproduzione delle foto proprio di Dondero esposte lo scorso settembre alle Gallerie… Troviamo Vitti in amabile conversare con Floriano Menapace. Seconda coincidenza.

“Stamattina sono passati due clienti”, racconta Vitti. “Si chiedevano: 'Cossa faràlo 'l Franco?'. Cosa faranno loro, mi sono chiesto io”. Già, ma cosa farà Vitti una volta chiuso il laboratorio? “Mi dedicherò alla fotografia… da fotografo, con più tempo a disposizione. Terrò una parte dell'attrezzatura per sviluppare e stampare le mie foto, per diletto, prediligendo come soggetto la gente, anche se oggi, col discorso della privacy, non si può più fotografare!”.

Franco Vitti, classe 1954, ha passato una vita in camera oscura. “Ho comprato la mia prima macchina fotografica nel 1970. Nel 1974 ho iniziato a lavorare come commesso all'Elettrocasa, consigliavo e vendevo apparecchi fotografici”. E' lì che Vitti apprende i rudimenti dello sviluppo e della stampa. Ma quando ai dipendenti viene imposto di indossare un camice uguale per tutti (“Una 'telàra' arancione, come Guantanamo”, chiosa Zotta) Vitti decide di andarsene. Farà altre esperienze lavorative, sempre come sviluppatore, per aprire poi nel 1991 un suo laboratorio, in via Rosmini. Dove è rimasto fino ad oggi. “Ho sempre sviluppato e stampato solo il bianco e nero, rigorosamente in modo artigianale, lavorando prevalentemente con i negozi di foto (che ritiravano le pellicole dai clienti e le portavano a Vitti, ndr) e per i fotografi professionisti”. Un nome tra tutti: Flavio Faganello, il grande maestro dei fotografi trentini. Per Faganello Vitti ha sviluppato e stampato il materiale per importanti mostre, “da quella del 1996 – ricorda – fino alle ultime”. “Faganello era uno che pretendeva molto, ma sapeva anche riconoscere e rispettare il mio lavoro, sapeva – a differenza di molti clienti amatoriali che invece erano molto esigenti, senza peraltro avere grande competenza – cosa si può ottenere da un negativo”, aggiunge Vitti accompagnandoci nella camera oscura. Qui, accanto alle scatole di carta fotografica Illford, ai contenitori con gli acidi per lo sviluppo e a tre imponenti ingranditori professionali Durst, Vitti ci mostra alcune mascherine di carta utilizzate per oscurare la luce dell'ingranditore. “Ma vanno bene anche le mani per mascherare parti dell'immagine e così aumentare o diminuire il contrasto”, spiega, suggerendo che “la foto giusta non esiste”, ma che per lui, artigiano – ma verrebbe da dire poeta – della luce, si tratta piuttosto di capire il cliente, coglierne i gusti, cercare di comprendere se vuole foto morbide o più contrastate. Con l'avvento della fotografia digitale questa manualità si è persa. “Oggi coi programmi di fotoritocco hai a disposizione non due, ma duemila mani, puoi pulire l'immagine, ritoccare il singolo pixel. Ma, pur essendo aumentata enormemente la risoluzione dei sensori delle macchine fotografiche e la qualità delle stampanti e degli inchiostri utilizzati, resta il fatto che i neri della stampa tradizionale restano ineguagliabili”, afferma Vitti rivendicando la manualità del suo lavoro. “Il taglio della foto, l'inquadratura – rimarca Zotta – si impara proprio mettendosi all'ingranditore”. E a fare il grande fotografo, ecco il segreto di Vitti, è la pazienza di provare e riprovare. “Stampando si impara”, suggerisce, osservando che non si deve paura a buttare via carta, stampando più volte lo stesso negativo finché non si è ottenuta l'immagine che ci si prefiggeva. Lui, in tutti questi anni, di carta ne ha buttata tantissima.

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