Il calcio secondo Ciccio Franzoi: “Vi racconto la mia vita nel mondo del pallone”

Mister Narciso Franzoi, detto “Ciccio”, alle soglie dei 90 anni. Foto © Gianni Zotta
“I primi a chiamarmi ‘Ciccio’? Si presero un bel castigo…”. Inizia dal racconto della genesi del celeberrimo soprannome la nostra intervista a Narciso Franzoi, calciatore e allenatore che ha scolpito indelebilmente il suo nome in quasi cinquant’anni di storia di calcio trentino, dagli anni Quaranta ai primi anni Novanta.“C’erano questi due compagni delle elementari che all’uscita mi canzonavano: ‘ciccio, ciccio’ mi dicevano… Passi una, passi due volte, ma la terza andai dal maestro; e la presa in giro finì”, racconta con un sorriso mentre mescola lo zucchero nel caffè preparato dalla moglie Luciana. Una decina di anni più tardi, Narciso fa il suo esordio con la maglia del Trento e uno spettatore chiede informazioni su quella giovane ala destra che si sta facendo notare. “Caso vuole che, in tribuna, seduto vicino a lui ci sia proprio uno dei due bambini, ormai adolescente, che risponde prontamente: ‘L’è el Ciccio!’. E così, quel soprannome mi restò per sempre cucito addosso”.Parte da lontano la storia di quel ragazzo nato a Strigno nel giugno del 1926, si intreccia tragicamente con la guerra, con il tremendo bombardamento del 13 maggio 1944 che gli porta via la mamma. Una zia che lo accoglie assieme ai fratelli, il lavoro, le prime paghe. E quella passione mai sopita per lo sport, su tutti il calcio, dall’esordio con la Juventina al “suo” Trento – “500 lire a vittoria la prima paga”, ricorda Narciso – agli anni di Tione. “Il mio ruolo preferito? Il mediano. Anche se li ho fatti praticamente tutti, tranne il portiere”. E con questo bagaglio di esperienza, il passaggio dal campo alla panchina è breve.

Sembra di vederlo ancora in tuta e scarpini, in mezzo al campo, assieme ai suoi ragazzi. Anni intensi, di calcio e uomini che furono. Narciso ricorda, racconta storie che sanno di polvere e ghiaia, di ginocchia sbucciate e di sudore, che profumano di campo da calcio in primavera, quando l’erba comincia a ricrescere dopo che la neve l’ha silenziosamente coperta durante l’inverno. “Non mi piaceva stare a guardare, sa? Durante gli allenamenti ero sempre in mezzo ai giocatori”, dice. “Volevo osservarli da vicino, valutarne bene lo stato di forma. E poi – continua – quando sentivo mancarmi il fiato significava che anche loro potevano aver bisogno di una pausa”.

Ma mica si correva e basta. “L’allenamento della tecnica non era mai in secondo piano: lo stop, il passaggio, il tiro. E con un pallone tra i piedi non ci si accorge di far fatica…” sorride Ciccio. I suoi occhi azzurri raccontano la storia di un uomo vero. “E non usavo mai il fischietto, mi facevo sentire con la voce. Mi piaceva essere presente, anche fuori dal campo per costruire il gruppo”. E poi girandosi verso la moglie, allargando le braccia. “Come quella sera che, senza preavviso, hai dovuto far da mangiare per tutta la squadra, vero Luciana?”.

Narciso sfoglia velocemente gli album dei ricordi, ci mostra le foto in bianco e nero, i ritagli di giornale. Le dita vanno su e giù alla ricerca di un nome, di una data che per un attimo sembra sfuggirgli, ma che poco dopo ricorda prontamente. Soncina, Marchi, Jesse, Larini, Fabbro è l’inizio della filastrocca che si completa con Gava, Mariani, Filippi, Bertogna, Damonte e Mongitore. E tutti gli altri. Li scandisce uno per uno quei nomi. Come se fosse prima di una partita nel momento in cui i giocatori aspettano di sapere se giocheranno o meno. E l’allenatore li passa in rassegna, li guarda negli occhi, prima di leggere la formazione. “Prima della gara ero sempre molto tranquillo”, racconta Ciccio Franzoi. “Nessun discorso particolare, solo qualche appunto. L’allenatore sceglie i giocatori, ma poi in campo ci vanno loro. Quando oltrepassano quella linea e i loro scarpini calcano il campo da gioco, beh, già sanno cosa devono fare”.

Risultati, tabelle, marcatori, statistiche, il calcio è anche questo. Chi non conosce la storia potrebbe definirli freddi numeri. Che, invece, a chi l’ha vissuta, rievocano ricordi indelebili. Ecco allora che quel Trento – Mestrina 2-1, stagione 74/75, serie C, racconta la storia del ritorno al Briamasco del “maestro” mister Bozzato, che Franzoi, per anni suo secondo, definiva alla vigilia della gara, “amico e collega da cui ho imparato parecchio”.

E, poche settimane prima, lo 0-1 in casa contro il Piacenza, quel “maledetto” 11 gennaio, in uno stadio strapieno. “Arriviamo da una sconfitta, ma sappiamo bene che, vincendo, possiamo rilanciarci in classifica”, racconta Ciccio, come se fosse ieri. “Gli avversari non si fanno intimorire dal nostro pubblico e vanno subito in vantaggio. Ma noi non perdiamo l’entusiasmo e ci buttiamo all’arrembaggio della loro area. Attacchiamo, conquistiamo un rigore. Mongitore sul dischetto, il portiere fa qualche passo in avanti, vola in tuffo, lo para. Poi ancora attacchi nostri, una traversa. Niente da fare…”. Sembra di sentirlo ancora, quarant’anni dopo, il rumore sordo e beffardo del cuoio che incoccia il palo, il “noooooo” di tutto il Briamasco, i tifosi che si mettono le mani davanti agli occhi e pestano i piedi sulle gradinate.

“Ci penso ancora a quel rigore”, ammette. “Mi rimprovero di non aver detto al mio giocatore, prima della gara, che nel caso si fosse trovato sul dischetto avrebbe dovuto cambiare angolo. Di là lo conoscevano”, sospira. “Ma poi mi dico anche, cosa ci si può fare, adesso? Niente… Non serve discutere, arrabbiarsi, è il calcio. Il calcio che prende e dà, che è sempre imprevedibile come la vita. In campo niente è certo, sicuro. Giochi bene per novanta minuti e poi basta un errore a condannarti…la bala l’èi tonda.

Ma allora Narciso, cosa resta? “Si può vincere, perdere, passano allenatori e giocatori, tutto cambia velocemente. Ma sa, alla fine, cos’è la cosa più bella e importante a distanza di anni? È il grazie di qualcuno con cui hai condiviso anche solo qualche mese di questa avventura, la telefonata di un tuo giocatore che ha fatto carriera e si ricorda di te, un pacca sulle spalle, un ‘ciao’ da quello che ancora ti riconosce al bar o per strada”.

Questo il calcio. Il suo calcio. Il calcio secondo Ciccio.

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