Il sorriso, la cura migliore

Abbiamo incontrato il missionario e medico negli studi di Trentino inBlu in occasione della Giornata mondiale della lebbra, celebrata lo scorso 31 gennaio

Padre Giorgio Abram è un missionario e medico trentino, tra i massimi conoscitori ed esperti di lebbra. Lo abbiamo incontrato in occasione della Giornata mondiale della lebbra, celebrata lo scorso 31 gennaio. Di questa malattia, delle sue cure, ma più ancora dei suoi malati, padre Giorgio si occupa fin dal suo arrivo in Ghana, nel 1977. Da allora sono cambiate tante cose. Il nome, ad esempio. Oggi si chiama Morbo di Hansen. Ma soprattutto non è più una malattia incurabile.

“La malattia in sé ora è guaribile – ci conferma padre Giorgio – ci sono medicine efficaci e senza controindicazioni. Ma la lebbra è sempre problematica da un punto di vista sociale. In quanto incurabile era considerata un castigo di Dio, mandata come punizione alla persona o al clan. Non c’era soluzione e chi ne era colpito era da emarginare: così si sono riempiti i lebbrosari. Il problema grosso è sempre stato questo. Ed un po’ lo è ancora. Se non curata la lebbra crea grosse malformazioni: perdi le dita, perdi sensibilità, diventi cieco. I malati necessitano di assistenza. E’ importante riuscire a reinserirli nella loro comunità, farli tornare nelle famiglie. Molti non vogliono perché si vergognano. Quindi ora il problema è il post-lebbra”.

La sfida è quindi superare lo stigma sociale?

Adesso con le medicine se presa in tempo la lebbra non provoca nessuna malformazione. Questa è stata la grande vittoria sulla lebbra. La sfida è inserire nella società chi porta i segni del morbo di Hansen. Un inserimento che deve partire dall’educazione sanitaria alle famiglie stesse, per far capire di che malattia sia tratta. E poi è importante l’esempio. Vedere che un malato viene curato a casa sua e che guarisce aiuta a cambiare la mentalità. La lebbra non è più un castigo ma diventa una malattia come un’altra.

Come e cosa è cambiato dal suo arrivo in Ghana ad oggi?

Nel 1977 c’erano i lebbrosari e le colonie per i lebbrosi. C’erano circa 50.000 malati di lebbra e l’unico rimedio esistente non era efficace : una situazione molto penosa. Poi sono cambiati i farmaci. Abbiamo iniziato a cercare i malati, per prevenire. Piano piano i numeri sono scesi. I nuovi casi dell’anno scorso sono stati 396. Dal punto di vista epidemiologico è inesistente.

Ma nella mia esperienza di “formatore” mi sono scontrato anche con realtà ben diverse e purtroppo ancora arretrate. In Vietnam ad esempio esistono ancora oggi i lebbrosari, chiusi con mura e cancelli.

La malattia è sconfitta, ma giusto quindi ancora parlarne?

In tante parti del mondo, in India come in Brasile ad esempio, la mentalità è ancora quella, l’isolamento è ancora considerato l’unica soluzione. Un appello per aiutare ancora i malati di lebbra è necessario.

In Ghana invece lei ora può guardare oltre…

I problemi sanitari non mancano. Nell’ospedale generale, che è l’ex lebbrosario, oltre al reparto in cui curiamo ancora i malati di lebbra, abbiamo avviato un reparto di prevenzione ed isolamento per affrontare le malattie infettive. Siamo ancora in fase di progetto, ma l’idea è quella di un settore preparato alle emergenze e alle epidemie, come potrebbero essere ebola, meningite o colera.

Per sostenere il progetto propone un libro “Quattro gatti senza storia. Riflessioni semiserie di un missionario”.

E’ un racconto divertente, scanzonato, dei miei anni in Ghana. Sono solo pensieri, anche scollegati, in cui prendo in giro me stesso e cerco di sdrammatizzare: l’autoironia è una medicina fondamentale per affrontare la vita.

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