Lettere dal fronte del soldato Ungaretti

“Di queste case/ non è rimasto/ che qualche/ brandello di muro.// Di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/ neppure tanto.// Ma nel cuore/ nessuna croce manca.// È il mio cuore/ il paese più straziato”. Sono versi di Giuseppe Ungaretti, uno dei poeti che meglio espresse il dolore e lo strazio dell’esperienza della grande guerra. Poco dopo la disfatta di Caporetto, così egli scrisse in una lettera ad un amico, nel novembre 1917: “Ho seguito il pellegrinaggio, stordito, lungo i cimiteri dove si lasciavano tanti morti che m’erano stati cari in vita, che avevo visto partire schiantati in piena speranza increduli della morte, sebbene docili, poveri compagni lontani”.

Questa missiva fa parte di un prezioso volumetto di ventisei lettere inedite (Lettere dal fronte a Mario Puccini, editrice Archinto, euro 16,00) curato da Francesco De Nicola; lettere che ebbero come destinatario un giovane tenente e scrittore, che aveva pubblicato sulla rivista “La Voce” e aveva in comune con Ungaretti molti amici letterati, tra cui Giovanni Papini ed Ardengo Soffici. È una corrispondenza, come scrive il curatore nell'introduzione, che aiuta “a comprendere le ragioni profonde della poesia eterna scritta dal 'fragile' soldato Ungaretti”; e trasmette senza dilungamenti né menzogne lo stato di affaticamento, tra disillusione e disperazione, del poeta al fronte: “Sono stanco: gli occhi malandati; il povero corpo gracile sconquassato, i nervi rotti, le ossa torpide; ma tiriamo innanzi”, denuncia Ungaretti nella prima lettera della raccolta; e poco più avanti scriverà più volte di soffrire di “nevrastenia”.

Uno dei motivi maggiori di queste raccolta è l'insistita richiesta a Mario Puccini – ufficiale presso il Comando supremo della terza armata – di non svolgere il corso di allievo ufficiale ma di poter rimanere nel suo reggimento d'origine, il diciannovesimo, divenuto per lui una sorta di nuova famiglia nella guerra, dove riceveva l'apprezzamento e l'affetto necessari per continuare a vivere, in un orizzonte d'esistenza che col passare dei giorni e delle settimane diveniva sempre più buio.

A Mario Puccini, che Ungaretti sentiva particolarmente vicino per la passione letteraria condivisa, il poeta scrive anche dell'accoglienza del suo primo volume di versi, Il porto sepolto, che era uscito in poche decine di esemplari nel dicembre del '16. E se da un lato ricorda con lui, in queste lettere, cari amici del tempo bello prima della guerra, dall'altro non risparmia il perentorio sarcasmo per D'Annunzio, “che fa le 'pose plastiche' in ginocchio dinanzi ai feretri, col lembo della bandiera in mano e non so in qual altro modo, dinanzi al fotografo sempre immancabile”.

Questo era inammissibile per Ungaretti, che sentiva la tragedia delle guerra come un momento per esprimere la condivisione d’umanità e della sofferenza solidale a tutti coloro che, come lui, stavano attraversando l’inferno quotidiano della grande tragedia.

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