La guerra non li divise

“Con una vita spirituale intensa cerco meritarmi le grazie che tanto desidero”. Non è tratto dal diario di un religioso ma da una lettera di un soldato, prigioniero di guerra, che ha sperimentato l’orrore più turpe combattendo a lungo sul fronte. “Mio padre ha saputo rimanere umano anche in guerra”, ci dice Donata Loss, ex insegnante di Rovereto, già assessore comunale, curatrice assieme alla sorella Maria del libro “P.o.W. Da Tunisi a Camp Perry: lettere familiari (1939-1945)” (Edizioni Osiride), uscito di recente nella collana “Memorie” del Museo storico italiano della guerra. “P.o.W” sta per “Prisoner of War” (prigioniero di guerra). Il sergente maggiore Carlo Loss (1917-1982) fu uno di quei soldati trasferiti nei campi di concentramento degli Stati Uniti man mano che gli americani avanzavano in nord Africa. Fatto prigioniero in Tunisia il 13 maggio 1943, il 21 luglio salpò con la nave da Algeri per sbarcare il 3 agosto in Virginia. Visse prima a Camp Clark (Missouri) e dal febbraio ’44 a Camp Perry (Ohio).

Quanto emerge dalle lettere di Carlo e della moglie Fiorenza Farinati – pur avendo anche un grande valore storico – merita di essere diffuso soprattutto per quella profonda testimonianza cristiana spesso invocata anche da Papa Francesco. Vissero con gioia e fedeltà, grazie ad una convinta spiritualità di coppia, nonostante il momento drammatico e il prolungato distacco, fiduciosi nella volontà di un Dio che consideravano sempre Padre. La guerra li tenne separati per cinque anni; Carlo partì quasi subito per l'Africa e rientrò solo nel maggio 1942 per sposarsi, con un mese di licenza. Non vollero attendere la fine della guerra e tempi migliori. Ripartì subito per l’Africa e non vedrà più Fiorenza fino al gennaio 1946. Nella seconda fase del conflitto la corrispondenza diventava sempre più rara fino a fermarsi per mesi. Allora per sentire più vicina la sua “carissima Encia” – intenso lo scambio di affetto tra i due – Carlo escogitò un sistema ed iniziò a scriverle delle lettere su due quaderni comperati a Camp Clark, che narravano quanto accadutogli, tappa per tappa, nel viaggio di rientro al fronte dopo il matrimonio, prima in treno lungo la penisola italiana, poi in Egitto, Tunisia, Algeria e infine negli Stati Uniti. Le consegnerà gli scritti al rientro. Immaginava di stare con Fiorenza e scriveva: “Quanto è bello tutto questo, mio Dio! Quanto è bello amare, quanto è bello essere amati!». Carlo e Fiorenza hanno saputo aspettarsi, amarsi spiritualmente a distanza, con la forza della preghiera. Sul fronte, leggeva l’“Imitazione di Cristo”, pregava con il rosario e ad ogni trasferimento invocava la protezione dell’angelo custode, consapevole che da un momento all’altro avrebbe potuto saltare in aria. Gioiva quelle rare volte che poteva partecipare alla Messa. Durante le marce forzate con le piaghe ai piedi, meditava sulle dolorose sofferenze di Cristo verso il Calvario. Nei campi americani aveva molte più possibilità di pregare, pur vivendo comunque in una condizione di prigionia, dove non mancavano i ricatti dei vincitori. Riusciva a svolgere anche la devozione dei primi nove venerdì del mese in onore del Sacro Cuore di Gesù, e si confessava spesso. Al suo 27° compleanno decise di esercitare la “bella virtù della pazienza, nei disagi, nelle lotte, nelle umiliazioni”, sopportando anche i difetti dei camerati. Il 6 agosto del 1943 scriveva: «Sto bene e voglio essere buono per te». Un’espressione che ripeterà più volte – e che usa anche la moglie – spinto dal desiderio di donarsi solo a Fiorenza, al ritorno. Mentre vedeva i compagni approfittare delle numerose ragazze americane, a disposizione dei prigionieri, Carlo si ritirava nella preghiera e negli esercizi sportivi. Una “purezza” non solo per la fedeltà, ma anche d’animo, che Fiorenza apprezzerà molto. Lei, mentre lo attendeva, preparava con fiducia gli oggetti per quella che sarebbe diventata la loro “casetta”.

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