Tripoli bel suol d’amore

La difficile prospettive della situazione in Libia, insidiata dai fondamentalisti, dove il governo italiano è chiamato a un ruolo di regia

Può suonare irriverente ripescare i versi della canzonetta che nel 1911 accompagnò il sogno italiano di farsi una grande colonia in Libia. Poi, come si sa, quel territorio finì per essere una trappola per i nostri sogni, il famoso “scatolone di sabbia”, per di più percorso da fenomeni insurrezionistici endemici. Il petrolio e la ricchezza che poteva dare vennero scoperti quando ormai avevamo perduto quella colonia.

Oggi però la famosa “quarta sponda” del lago mediterraneo torna prepotentemente fra i nostri problemi. Certo qualche difficoltà l’avevamo avuta anche ai tempi di Gheddafi, che, non dimentichiamolo, era molto abile sia nel pretendere “riparazioni” per il nostro passato coloniale, sia nel chiudere gli occhi di fronte al traffico dei migranti che prosperava anche allora sulle sue coste. Rispetto a quel che sembra attenderci ora era però robetta.

Perché oggi il tema non è quello di rimettere in sesto un Paese dissestato da lotte tribali e senza una autorità centrale capace di imporsi. E’ quello, assai più spinoso, dell’ipotesi che il cosiddetto stato islamico (Isis o Daesh che lo si voglia chiamare) possa fare della Libia quello che a suo tempo Al Qaeda di Bin Laden aveva fatto dell’Afghanistan. Il rischio c’è ed è grosso, perché le forze del fondamentalismo del nuovo califfo non stanno vincendo in Iraq, sono messe abbastanza in difficoltà in Siria, e dunque hanno molto bisogno di creare un’oasi sicura in cui barricarsi.

Se poi quest’oasi è anche ricca di petrolio, tanto meglio. In fondo l’Isis finora ha sostenuto le non lievi spese della sua organizzazione e delle sue guerre coi proventi del petrolio irakeno e siriano, per quel tanto che riusciva a controllarne i pozzi. Però la sua permanenza in quelle terre sta diventando problematica, perché ormai ha un numero di nemici troppo grande: le potenze occidentali, ma anche Russia, Egitto, Iran, ed hezbollah libanesi. Non si sa neppure quanto potrà continuare il doppio gioco della Turchia e dell’Arabia Saudita che con una mano condannano e con l’altra sostengono il sedicente califfato. Conclusione: è opportuno per lui conquistarsi un nuovo stato, e se è debole è meglio.

Questa è la situazione di fronte alla quale si trova l’Italia. Una parte di opinione pubblica ha gridato allo scandalo per avere appreso dal segretario Usa alla difesa che abbiamo chiesto il comando della missione internazionale che pudicamente non si definisce più guerra (richiederebbe un nemico dotato di uno status internazionale pari a quello dei membri della coalizione), ma variamente: intervento di polizia internazionale, di peace keeping o di peace enforcing. La sostanza però è che la comunità internazionale ha deciso che uno stato in mano all’Isis alle porte d’Europa non è accettabile.

Si tratta di un contesto nel quale l’Italia di per sé non ha molte alternative. Prima di tutto se volesse fare semplicemente lo spettatore tenendosi fuori dal problema, lascerebbe campo aperto ad altri membri della comunità internazionale che sono ben felici di insediarsi in un territorio che ha sia una posizione geografica di valore strategico, sia un patrimonio interessante di risorse naturali. In secondo luogo l’Italia ha tutto l’interesse a cercare di controllare le basi della tratta dei migranti che sono collocate nei porti libici. Soprattutto se la cosiddetta “rotta balcanica” venisse meno per le frontiere macedoni e ungheresi sbarrate, la via italiana per l’accesso all’Europa tornerebbe centrale. Tutto sommato non possiamo mettere il filo spinato ai moltissimi chilometri delle nostre coste e la nostra capacità di controllo della gente che approda da noi non è delle più efficienti. In terzo luogo l’Italia non può pretendere un posto a tavola coi grandi della UE e sfilarsi dalle situazioni pericolose: non solo non sarebbe dignitoso, ma finirebbe pure per farci perdere la possibilità di chiedere trattamenti di riguardo in materia di finanza pubblica.

La conclusione è che l’Italia deve esserci, ma ha qualche difficoltà a farlo in maniera trasparente. In primo luogo perché per vincere le remore del parlamento deve potersi trincerare dietro una richiesta di aiuto da parte del nuovo governo legittimo della Libia e quello, per dirla con un eufemismo, stenta a decollare. In secondo luogo perché operazioni di quel genere costano e molto: non è un momento buono per caricarci di una spesa ulteriore che ci impedirebbe di intervenire sul fronte del sostegno alla nostra economia interna (anche le industrie belliche ne fanno parte, ma non hanno una presenza determinante).

Servirebbe una grande coesione nazionale intorno al governo, ma di questi tempi non si sa se e come sarà possibile averla.

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