La fune spezzata e quei morti innocenti

Accadde il 9 marzo di 40 anni fa. 42 morti dentro un vagoncino della funivia che si schiantò, poco dopo le 17, mentre portava a valle, dalle piste del Cermis, sciatori e operai degli impianti

I cadaveri dei 42 morti erano lì, allineati nel garage dell’ospedale a Cavalese, senza traumi apparenti, avvolti nelle tute e nelle giacche a vento colorate. Era la notte del 9 marzo 1976, la sciagura si era consumata da appena tre ore. E già si era messa in moto la macchina dell’oblio, gli inviti, mica tanto larvati, a non “gonfiare” la notizia perché sennò il turismo della Valle ne avrebbe avuto danno. “Via, via, fuori dai piedi”, diceva ai cronisti il sindaco. “Abbiamo altro cui pensare”.

Già era stato istruito il povero Carletto Schweizer a prendersi la colpa della strage. In cambio, avrebbe ottenuto il posto fisso per la vita e avvocati di grido per la difesa. L’ignaro avrebbe pagato, l’unico di tutta la compagnia, con tre anni e sei mesi di carcere. Quanto al posto fisso, se non si fosse messo di mezzo l’allora senatore democristiano Giorgio Postal, che lo fece assumere alle Poste, sarebbe vissuto peggio di quanto non gli sia capitato poi di sopravvivere.

Come 22 anni dopo (3 febbraio 1998), anche la prima volta si disse che tutto era dovuto a fatalità, che la cabina era precipitata al Mas del Teta perché il Carletto aveva fatto scendere manualmente il vagoncino rosso nonostante il blocco automatico causato dalla sovrapposizione delle funi. Solo in un secondo tempo, e dopo la condanna in primo grado, il Carletto disse che l’ordine alla manovra gli era stato dato per telefono dal caposervizio di turno.

Tra le vittime di quel giorno, a Cavalese, ci furono due studenti del liceo classico “Carducci” di Milano. Una terza studentessa, Alessandra Piovesana, 14 anni, fu l’unica superstite: “Un mese di ospedale, un mese bloccata a casa, quattro o cinque anni di operazioni alle gambe”, ricordò 22 anni dopo quando accadde il secondo disastro del Cermis. “I primi anni vivi con l’angoscia, con il terrore. Poi passa il tempo, non ci pensi, scacci via l’idea del 'superstite unico', che si è salvato mentre gli altri 42 sono morti”.

Alessandra Piovesana si laureò in lingue, divenne giornalista professionista della Mondadori. È morta, uccisa da un tumore, l’8 aprile 2009. Anche Carlo Schweizer è morto: il 24 luglio 1998. L’indomani della seconda strage del Cermis (3 febbraio 1998). Ma fino a quel secondo appuntamento con la “fatalità” (?), fino a quel replicato vagoncino di innocenti assassinati, il Carletto arrivava ogni anno in redazione. Puntuale più della cartella delle tasse. Ogni anno, come un fastidioso pungolo, riapriva le sue e le nostre ferite di cronisti sbigottiti, le cospargeva con l’aceto della memoria, e ci imponeva di ricordare. Diceva: “Domani è l’anniversario. Fate del vostro meglio”. Salutava sottovoce e se ne tornava in Val di Fiemme, alla sua solitudine, a quei fantasmi che arrivavano con le ombre della sera e che cercava disperatamente di esorcizzare.

Prima di andarsene, sconfitto da un tumore cominciato probabilmente in quei giorni, il Carletto ha passato idealmente il testimone a noi, cronisti invecchiati tra i “mattinali” della Questura e le stragi di Stava (1985) e del secondo Cermis (1998).

Se non “semel in anno”, ricordiamoli almeno negli anniversari tondi. Per continuare a dare fastidio a chi, quei morti, li avrebbe voluti seppellire per sempre con una “damnatio memoriae”. Certo, la cronaca si è fatta storia, ma quarant’anni dopo, piaccia o no, non è ancora tempo del diritto all’oblio.

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