L’”abc” di Paolo Ghezzi

“Il vero maestro? Don Cristelli, faro di libertà”. “L'incontro indimenticabile: Helder Camara”. “Agli aspiranti giornalisti: obiettività e un po' di invenzione: basta pezzi fotocopia”

Appena apertasi una, peraltro inattesa, “finestra”, non ha esitato al salto metaforico. Oggi, Paolo Ghezzi, fresco pensionato più attivo di prima, si definisce, con l'ironia di sempre, “un ragazzo che continua a collaborare con il suo ex-giornale, con la rubrica L'isola del giovedì”. Quasi un ritorno all'antico, a quelle prime “recensioni di libri improbabili con cui il responsabile delle pagine culturali de L'Adige Rinaldo Sandri dava un po' di pastura ai pesciolini…”.

Ma il primo, vero, articolo?

Sicuramente con Vita Trentina. Forse una recensione cinematografica o qualche tema culturale.

Ghezzi, benvenuto a quegli stessi microfoni ai quali conduceva, agli esordi della radio diocesana nei primi anni Novanta, Alfabeto Gutemberg, in coppia con Andrea Zanotti. L’idea?

Nasceva dalla voglia di due ragazzi del '57, in classi parallele al Prati, di giocare con le parole. Partire da una parola del vocabolario per agganciare temi d'attualità. Ho sempre amato gli “abc”: li ho fatti nei giornali e nei libri. Sono la mia debolezza. D'altro canto mi piacciono le opere di consultazione, non solo i romanzi. I vocabolari sono tesori inestimabili.

Il vero maestro di giornalismo?

Don Vittorio Cristelli, un faro. Dava l'idea di un'informazione libera e battagliera. Cito anche don Agostino Valentini con il quale creammo il rotocalco televisivo “Pietre Vive”. Lui combinò anche il mio matrimonio.

Parola d’ordine nella redazione cristelliana?

Scrivere le cose che gli altri non scrivevano e dare voce a chi non ha voce. La necessità di approfondire le questioni e non darle mai per scontate. Ed essere, ribadisco, totalmente liberi dal potere politico.

Libertà che si è portato dietro anche negli anni della sua direzione a L'Adige?

Otto anni, otto mesi e tre giorni di direzione: come gli 883! Furono anni se non proprio di assoluta, certo di grande libertà. Gli editori chiedevano solo linea aperta ed equilibrata.

Il titolo che non rifarebbe?

Di errori ne abbiamo fatti tanti. All'inizio della moda, anche giornalistica, del viagra, ci fu una morte sospetta nel basso Trentino e noi ci andammo giù davvero pesanti facendo troppe pagine e troppi titoli. Me ne vergogno ancora abbastanza. Ma si viene presi dalla paura della concorrenza, di non fare abbastanza, la voglia di essere venduti. Le tentazioni sono forti.

Il titolo più riuscito?

Se posso confessare la vanità, ho indovinato un paio di vescovi prima di questo… Però ricordo quel “Guerra all'America”, l'11 settembre: fu un momento di grande stress con la sensazione che anche L'Adige, nel suo piccolo, poteva scrivere una pagina di storia.

L'intervista-incontro indimenticabile?

Direi Helder Camara, il vescovo di Recife, vescovo dei poveri, protagonista al Vaticano II. Figura fragile, minuta, ma straordinariamente forte e profetica.

L'allievo migliore?

Vedi persone che partono in un certo modo e migliorano profondamente. Non è stato solo allievo mio, e non voglio attribuirmi il merito di aver partorito un corrispondente dalla Cina, ma Giampaolo Visetti iniziò a collaborare all'Alto Adige con me. Tornava dalle conferenze stampa con fogli fittissimi in cui trascriveva tutto… Ora è uno dei migliori giornalisti italiani.

Il consiglio a chi si avventura nella professione giornalistica?

Non avere illusioni, perché non assumono più nessuno. Anche se i giornali non si potranno mica fare con i cadaveri… Detto questo, invito a ricercare l'obiettività. Ed essere un po' inventivi sul piano del linguaggio: non ne possiamo più di pezzi fotocopia. Ognuno metta un segno della sua originalità, qualche irregolarità per marcare il suo stile.

Domanda al direttore editoriale della casa editrice “Il Margine”: regge questa coraggiosa impresa culturale?

Non è facile, ma ci proviamo. Annuncio che abbiamo buttato il cuore oltre l'ostacolo e abbiamo cambiato sede, allontanandoci dalla zona vicina al cimitero: credendo noi nella vita (sorride assai divertito, ndr) non era il massimo… Ora ci siamo trasferiti dietro l'ex Barycentro di piazza Venezia. Vi nascerà anche un bar-ristorante- libreria dove ci faremo vedere un po' di più.

Da scrittore, forse la soddisfazione maggiore le deriva dall'ultimo libro “Filololò rema nell'aria” (Erickson – a quattro mani con la moglie Emanuela Artini) dedicato a sua figlia. Agli ascoltatori-lettori come presenta Alessia?

Mia figlia è una ragazza speciale che ha appena compiuto 29 anni. Nasce con problemi che la rendono dipendente dagli altri ma è, per dirla con Bergonzoni, un caso di “viso comunicante”, anziché “vaso”. Anche il suo linguaggio è particolare: scompone e ricompone pezzi di canzone e per seguire questo linguaggio è nato Filololò: due scrittori che provano a capire cosa c'è dietro…

Avete provato a raccontarglielo il libro?

Sì, le viene letto ad alta voce e le piace molto, le crea ampi sorrisi.

La maggiore gratificazione per voi?

I lettori hanno capito che non è una testimonianza edificante, che punta a far piangere, ma è anche un'avventura linguistica divertente. Non è un libro sulla disabilità, ma su una persona che cerchiamo di “decodificare”.

La lezione che vi sta dando vostra figlia, tradotta in una sola parola, ripensando ad Alfabeto Gutemberg?

Ritorna ancora la parola libertà. Di inventare parole e idee. Ma soprattutto grande, forte, libertà interiore.

Quella che anche lei ha sempre cercato di coltivare anche da credente?

Amo De Andrè perché esplora gli “angeli irregolari” e non canonici. Sono un po' allergico all'ortodossia, anche se all'inizio, per formazione familiare, potevo rischiare di diventare un ultrà cattolico. Poi ti accorgi che la vita è più irregolare di quanto si possa pensare e che diventare troppo giudicanti non è proprio il caso. Ce lo insegna bene questo Papa.

Pensando alla cultura mediatica e al maestro Umberto Eco: più apocalittico o integrato?

Moderatamente apocalittico. Penso ai social: un gioco seduttivo, ma compulsivo. Si rischia di creare un meccanismo che si autoalimenta, ma ti corrode. Dobbiamo riscoprire quei visi comunicanti, perché la vita, come diceva qualcuno, è l'arte dell'incontro.

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