Il Cristo di Castellucci, don Nicolli: “Crudo, ma non blasfemo”

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Approda stasera, alle ore 2030, al Melotti di Rovereto lo spettacolo di Romeo Castellucci “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”. Una proposta teatrale che non ha mancato di alimentare in questi anni un dibattito assai vivace, raccogliendo anche forti critiche, fino ad essere tacciato talora di “blasfemia”. Sulla scena una gigantografia dell’emblematico Ecce Homo di Antonello da Messina che interroga il nostro sguardo, e schiude la riflessione. Un profondo coinvolgimento empatico in cui umano e divino si trovano faccia a faccia, “sguardo a sguardo”, accomunati da un percorso di sofferenza. 

Alle accuse di blasfemia avanzate alla piéce teatrale, che peraltro gira ormai nel teatri italiani ed europei dal 2010, ha preso posizione la presidenza del Consiglio decanale di Rovereto. 

In un documento votato a larga maggioranza, previo un confronto con l’Ufficio comunicazioni sociali e concordato con mons. Bressan e il neo eletto mons. Tisi. Un testo misurato in cui si rileva che lo spettacolo, pur richiedendo una visione critica e matura,  non possa essere oggetto di censura di sorta.   Ai nostri microfoni interviene don Sergio Nicolli decano di Rovereto. (Ascolta audio qui sotto) 

Di seguito la riflessione integrale: 

[Di fronte all’annuncio giornalistico di questo spettacolo, che ha suscitato qui, come già in altre città, reazioni forti di condanna e di accusa di “blasfemia”, non avendo visto di persona tale rappresentazione, non pretendiamo di formulare a priori alcun tipo di nostro giudizio. Vi sono riserve, come poi spieghiamo, ma riconosciamo che solo chi assiste alla prevista versione teatrale potrà esprimere più fondate considerazioni.

Da quanto ci è dato di sapere, il regista Romeo Castellucci è un autore del teatro italiano di avanguardia, riconosciuto a livello internazionale che, in questo caso, cerca di provocare una riflessione sul dramma del dolore umano e sull’impotenza degli uomini di fronte a questo dolore.

Ci sembra anzitutto opportuno, per comprendere meglio l’intenzione dell’Autore, riportare alcuni tratti di un suo scritto a riguardo dello spettacolo:

Questo spettacolo è una riflessione sul decadimento della bellezza, sul mistero della fine… Per questo spettacolo ho scelto il dipinto di Antonello a causa dello sguardo di Gesù che è in grado di fissare direttamente negli occhi ciascuno spettatore con una dolcezza indicibile. Lo spettatore guarda lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal volto. Il Figlio dell’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora.

Questo spettacolo mostra, nel suo finale, dell’inchiostro nero di china che emana dal ritratto del Cristo come da una sorgente. È tutto l’inchiostro delle sacre scritture, qui pare sciogliersi di colpo, rivelando un’icona ulteriore: un luogo vuoto fatto per noi, che ci interroga come una domanda.

Alla fine la tela del dipinto si lacera e appare una scritta di luce: “Tu sei il mio pastore”. È la celebre frase del salmo 23. Ma ecco che si può intravedere un’altra piccola parola che si insinua tra le altre, dipinta e quasi inintelligibile: un “non”, in modo tale che l’intera frase si possa leggere nel seguente modo: “Tu non sei il mio pastore”. La frase di Davide si trasforma così per un attimo nel dubbio. “Tu sei o non sei il mio Pastore?”.

Da fonti autorevoli in ambito ecclesiale apprendiamo che lo spettacolo è sicuramente crudo e per certi versi intollerabile, senz’altro non adatto a qualsiasi tipo di pubblico, e tuttavia non avrebbe intenzioni blasfeme: il significato profondo della rappresentazione teatrale consisterebbe, infatti, nello sguardo di Dio e di Gesù, l’unico che riesce a piegarsi sulle situazione più umilianti e degradanti della vita, le stesse che lo sguardo dell’uomo non riesce a reggere. 

Ciò premesso, non possiamo non esprimere perplessità e preoccupazione di fronte a tale rappresentazione che fin dal titolo chiama in causa il volto del Figlio di Dio. E non possiamo esimerci dal chiedere ragione di una proposta che rischia di essere così lacerante in tempi che non abbisognano di alcuna esca per esplodere: perché buttare lì senza alcuna preparazione una provocazione teatrale d’avanguardia che richiede un pubblico più che attrezzato culturalmente? Perché rischiare che il grido di dolore sull’umanità umiliata dalla vita, che il regista dice di aver pensato come una “preghiera”, venga preso in altrettanta buona fede come una profanazione e una bestemmia del volto che si ha più caro? A chi giova in tempi come questi, in cui l’essere umano, e il cristiano prima di ogni altro, viene umiliato, violentato, annientato appena al di là della nostra soglia, veicolare un messaggio che sembra privo di speranza? Perché poi farlo nel tempo di Pasqua, quando la Chiesa annuncia al mondo oppresso dalla violenza e dall’ingiustizia una salvezza che viene da un Dio che si è fatto carico fino in fondo della condizione umana più tragica?

Ci auguriamo che le persone che andranno ad assistere allo spettacolo abbiano sufficiente maturità e spirito critico per assimilarne il messaggio che l’autore dice di voler trasmettere. Allo stesso tempo ci auguriamo anche che non si ceda troppo facilmente alla tentazione di una contestazione violenta o intollerante: in questi tempi non ce ne sarebbe davvero bisogno.]

 

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