Idomeni, il giorno dopo

Un’Europa senza confini? E’ un sogno infranto per migliaia di persone da mesi accampate a Idomeni, il più grande campo profughi informale europeo, al confine tra Grecia e Macedonia. All’alba del 24 maggio la polizia greca ha iniziato lo sgombero e il trasferimento graduale dei migranti – circa 8 mila 500, il 40 per cento minori – in campi organizzati e allestiti appositamente nei pressi di Salonicco. Il campo era arrivato al collasso, arrivando ad accogliere fino a 14 mila persone, soprattutto siriani, afghani e iracheni, diretti al nord Europa, ma intrappolati, in condizioni disperate, dopo la chiusura della “rotta balcanica”.

Lungo la stessa rotta sono giunte nella notte tra il 24 e il 25 maggio Silvia Maraone e Annalisa Prandi, per una verifica del progetto a sostegno dei profughi a Preševo in Serbia, avviato da Ipsia del Trentino e Caritas Serbia con il sostegno dell’Assessorato alla cooperazione internazionale della Provincia Autonoma di Trento. “Il clima che si respira è di caos e di profonda incertezza per il destino di queste persone – racconta Silvia Maraone al telefono con radio Trentino inBlu –. Le decisioni vengono prese a livello governativo senza il coinvolgimento delle associazioni, delle Ong e degli operatori umanitari”.

Dall'estate dello scorso anno si è assistito ad un vero e proprio esodo. “Lungo la rotta balcanica è transitato un milione di migranti – spiega Maraone -, l’80 per cento partito dalla Turchia per approdare alle isole di Lesbo e di Kos”. Dalle isole greche i migranti raggiungono Atene via traghetto, “pagandosi il biglietto”, per poi proseguire in autobus verso Idomeni. “Il villaggio si è trasformato in un campo profughi spontaneo, non riconosciuto dal governo greco né assistito dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) – prosegue – con un flusso incontrollato di persone che a piedi ha cercato di superare il confine e raggiungere il Nord Europa”.

Fino al 19 marzo solo siriani, iracheni e afghani, considerati “profughi da zone di guerra”, erano autorizzati a proseguire lungo la rotta balcanica. “Gli altri, invece, in particolare maghrebini, eritrei, pachistani – precisa Maraone – sono stati respinti e fermati in Serbia, Macedonia, Slovenia e Croazia. In questi Paesi possono fare domanda di asilo o venire espulsi”. Con l'entrata in vigore dell'accordo tra Turchia e l'Unione europea la rotta balcanica si è chiusa definitamente. “Ora non c'è più via di uscita per nessuno, se non cercando percorsi pericolosi, illegali per proseguire il viaggio”. I rifugiati in Macedonia, Serbia e Croazia hanno lasciato i campi di transito, quelli in Grecia sono rimasti bloccati. “La Grecia è il Paese europeo più colpito da quest'ondata migratoria; si parla in questo momento di 50 mila persone che attendono di conoscere il loro destino: l'accoglienza nei Paesi dell'Unione, oppure il rimpatrio in Turchia, per essere poi riportati nei Paesi di origine”.

In questo rassegnato clima di crisi umanitaria si inserisce il progetto di Ipsia “Emergenza rifugiati sulla Western Balkan Route” nel centro di Presevo, in Serbia. “L'obiettivo – spiega Maraone – è ridurre il disagio, offrire aiuti di prima necessità (cibo, coperte, materiale igienico-sanitario) migliorando al contempo anche la logistica e i servizi di supporto sociale nei centri di registrazione e transito”. Silvia Maraone pone l'accento sui volti e sulle voci delle persone incontrate, oltre i numeri: “Persone spaventate, pronte a tutto, pur di andare via dal loro Paese, con la sofferenza nel cuore – racconta -, centinaia di madri e padri che tenevano stretti i loro bambini più piccoli, mentre quelli che sanno camminare correvano per non perdersi. Persone con titoli di studio elevato e un'unica richiesta: avere il diritto di un'esistenza normale”. “Lo sgombero non è una soluzione – conclude -, occorre un intervento di carattere politico a livello europeo di accoglienza e di ripristino della pace nei loro Paesi di origine”.

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