La rilettura di More nutre la speranza

"Se ancora non hai letto l'Utopia di More vedi di procurartela, se hai voglia di sorridere e nel contempo di gettare in profondità lo sguardo sulle cause da cui scaturiscono quasi tutti i mali della società". Così scriveva Erasmo da Rotterdam in una lettera a Wilhelm Kopp il 24 febbraio 1517. Sono trascorsi cinquecento anni ma il capolavoro di Moro è più attuale che mai e ad esso è stato dedicato un recente convegno internazionale intitolato "Thomas More e la sua Utopia. Cinquecento anni dopo" alla facoltà di Lettere e Filosofia nell'ambito del programma annuale "Utopia500" promosso da "Il Margine". Studiosi di varie nazionalità si sono confrontati su un manifesto politico e un capolavoro letterario che continua a provocare, anche a mezzo millennio di distanza, indagando il contesto storico-culturale e il successo incessante di un "aureo libello" pubblicato nel dicembre 1516 con un titolo che ebbe una fortuna straordinaria.

"Il progresso ci ha dotato di strumenti idonei a fronteggiare qualsiasi emergenza e oggi il futuro sembra farci meno paura – ha detto Francesco Ghia, curatore per il Margine della nuova edizione – ma il nostro è un tempo dominato dalla sensazione del rischio e dell'incertezza che impediscono di puntare lo sguardo oltre l'orizzonte, lasciando intatte le nostre angosce".

Non bisogna tuttavia cadere nel ricordo nostalgico, nel rimpianto o nell'accusa alle generazioni che ci hanno preceduto, e quella di “utopia” è un'idea che per More può abitare tra gli uomini, a condizione che si impegnino a cercarla con tutte le forze: "Una nuova vita può ricominciare, anche grazie ad un libro, ricordando che non lo si deve leggere alla lettera, ma secondo lo spirito ossia agendo secondo l'imperativo categorico kantiano – agisci come se le massime che guidano la tua azione fossero massime di un agire universale – che evoca la speranza e la volontà di nuove prospettive". Ogni uomo nutre in effetti la speranza che il suo interlocutore sappia andare oltre il detto, consentendo di ricominciare "a tessere la trama del vivere in senso autenticamente creativo perché teso ad un agire responsabile pur nella consapevolezza dell'imperfezione che ci domina, una tensione vitale tra il già e il non ancora, già sottolineata da Paolo nella Prima Lettera ai Corinti".

L'io narrante di Utopia, Raffaele Itlodeo, appare inoltre come il prototipo dell’homo viator e la condizione esistenziale dell'inquietudine, il non sentirsi di casa "in nessun luogo", in pellegrinaggio verso un altrove sperato, è la cifra riassuntiva di Utopia e di ogni utopia: "laddove aumenta il pericolo/aumenta anche ciò che salva", scriveva Hölderlin; e non a caso, proprio nel momento in cui l'angoscia diventa più acuta, più alta si leva anche l'invocazione di una "grande liberazione" (Gen 45,7).

"L'analisi dell'opera di More ne testimonia il carattere, come è tipico del genere letterario utopico, necessariamente aperto – ha commentato a conclusione dei lavori Fabrizio Meroi, responsabile scientifico insieme a Ghia -, e rileggere oggi Thomas More risulta un lavoro prezioso considerando l'ampiezza e la ricchezza della rielaborazione delle fonti (Platone, Agostino) che offre e la fecondità di alcune reinterpretazioni novecentesche".

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