L’importanza delle parole

Quando si hanno a disposizione due attori come Timothy Spall e Tom Wilkinson il valore aggiunto di un film è assicurato. Sono i loro volti contorti, rugosi, in qualche maniera sfatti, che danno all’interpretazione della coppia un’intensità magnetica. E’ uno di quei casi in cui la fisiognomica non è aspetto secondario. Tanto che un premio Oscar come Rachel Weisz (per The Constant Gardener-La cospirazione) quasi scompare per lasciare campo aperto all’istrionismo dei due.

La verità negata, dell’inglese Mick Jackson, è passato sugli schermi in queste settimane quasi in sordina, senza particolari “lanci”. E non ha registrato incassi esaltanti, anzi. Eppure avrebbe meritato maggiore attenzione. Biopic, film sugli strascichi dell’Olocausto, legal drama, qualunque cosa sia La verità negata racconta della causa intentata (e, al termine del processo, nell’aprile 2000, persa) dallo storico negazionista David Irving sentitosi diffamato dall’accademica statunitense Deborah Esther Lipstadt per un suo saggio, Negare l’Olocausto, pubblicato dalla Penguin Books.

Timothy Spall (il magnifico Turner ma fu anche in Segreti e bugie di Mike Leigh oltreché in un paio di Harry Potter e in tanto altro lungo quasi quarant’anni di carriera) è lo storico britannico antisemita e razzista. Tom Wilkinson (è in sala anche in Snowden di Oliver Stone, è il giornalista del Guardian, iniziò con Nel nome del padre di Sheridan nei primi anni Novanta ed è stato uno dei protagonisti di Marigold Hotel di John Madden) è a capo del collegio di difesa impersonando Richard Rampton.

C’è un momento de La verità nascosta che ne fa qualcosa di diverso rispetto ad altre “pellicole” che, in qualche modo, toccano il tema dell’Olocausto e della sua memoria. L’accademica americana incontra una sopravvissuta di Auschwitz che chiede di testimoniare. C’è empatia tra la storica (ebrea), Lipstadt-Weisz, e l’altra donna, che porta ancora sul braccio i segni di quella tragedia indicibile. Eppure il collegio di difesa impedisce che ciò avvenga, con brutalità. Perché? Perché portare in aula la verità non farebbe altro che permettere allo storico che nega l’esistenza delle camere a gas ad Auschwitz, di smontare pezzo per pezzo quella sofferenza facendola travolgere da sé stessa, dalle proprie contraddizioni, dal tempo certo cristallizzato ma i cui effetti sulla mente, nella propria interiorità, possono rivelare incertezze, allontanando così dalle prove, inconfutabili, dai dati di fatto. L’indicibile, l’orrore, non possono essere raccontati dentro un’aula di tribunale. Negare la verità per affermarla è il cammino, sofferente, di queste due donne. Se così non fosse, nell’immaginario quella tragedia si ripeterebbe, agnelli sacrificali davanti al delirio di onnipotenza hitleriano allora, vittime “sopportate” ora, oggi, e per sempre, se non denigrate, rimosse dalla coscienza del mondo.

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